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Addio a Lauzi, il poeta della porta accanto

Per lui che amava propiziarsi la vita, ad ogni risveglio, inaugurando la giornata con un sorriso, sarebbe un lieto sgomento ritrovarsi, dallo strenuo laico che era, in un paradiso riservato a musici, cantastorie e giullari. Fianco a fianco con lu santo jullàre Francesco celebrato da Dario Fo, «Saint Genet comédien et martyr» beatificato da Sartre, Vincenzo De Liguori che inventò Tu scendi dalle stelle, e Papa Gregorio che alleviò la gravità della liturgia col magico aroma del gregoriano. Subito, per rendere più accogliente il nuovo domicilio, v'impianterebbe un'azienda vinicola, come quella che aveva creato in Piemonte, giusta la profezia di Guccini, che se paradiso ha da esserci non sia almeno dissimile da una grande osteria, «dove il vino costa poco e non fa male».
Io l'immagino così, il Bruno, al suo ingresso nel mondo dei più: a pararsi sull'uscio col sorriso dei suoi risvegli, elargendo ai beati un po' delle sue barzellette, e facendo sorridere i bambini morti di guerra, col cantargli La tartaruga, Johnny Bassotto e O frigideiro, il samba in genovese in cui, con Gianfranco Reverberi e Natalino Otto, riversò la levità paradossale delle sue pagine migliori.
Perché se oggi si piange Bruno Lauzi, è meglio farlo sorridendo: lui preferirebbe. Ché l'ironia fu, per Bruno, non soltanto un sussidio di leggerezza: fu una categoria dello spirito, e insieme un usbergo, uno schienale, un bastone cui sorreggersi in una carriera spesso in salita. Lo fu fino all'ultimo, quando si manifestò l'assalto del Parkinson, e lui lo combatté scherzandoci su. Lo incontrai a San Babila, dove anni prima un commando di fascisti l'aveva aggredito perché era ebreo e artista, e mi sgomentarono il suo viso terreo, i bianchi riccioli ridotti a una parvenza, il tremore convulso della destra. Ma lui la voltò in ridere: «Una signora m'ha detto: “Ho il Parkinson anch'io, non riesco più a cucinare”. E io: provi con la maionese, le verrà meglio».
Era allenato, d'altronde, a contrastare la malasorte col sogghigno. Fin da ventenne quando, così piccolo e già canuto, toccava alle sue battute attirargli il favore delle coetanee. E agevolargli l'accesso a quel mondo della canzone per il quale aveva tutto, tranne il phisique du rôle. «Con Paoli, Tenco e gli altri suonavamo alle feste studentesche, io usavo un contrabbasso mignon, data la mia statura. E facevo sempre la stessa nota: prima o poi, pensavo, passeranno di qui».
Fu quel gruppo di liguri - anche se Bruno era nato all'Asmara, nel '37 - a inventare senza saperlo la canzone d'autore. Un dolce bolero, Ritornerai, fornì a Lauzi il primo successo. Poi Viva la libertà e La donna del sud. La sua bella voce dal vibrato francese, e l'innata lepidezza, indussero a proporlo come una sintesi tra Aznavour e Lino Toffolo. Lui obbiettò: «Spero di non far ridere come Aznavour, e di non cantare come Toffolo». Rischio inesistente: Bruno aveva un senso asciutto, mai enfatico dell'emozionalità, e una congenita inclinazione a divertire. Così sterzò verso il cabaret: al Derby fece comunella con Jannacci, Cochi e Renato, Andreasi. Ma la sua pagina più intensa, «l'unica che mi sopravviverà», fu Il poeta: ritratto d'un sognatore di provincia, che «alle carte era un vero campione/ lo chiamavano il ras del quartiere/ ma una sera, giocando a scopone/ perse un punto parlando di te». E che alla fine s'uccise, e «fu un peccato perché era speciale/ proprio come parlava di te». Qualcuno vi lesse un'allusione a Tenco, compagno di ginnasio e di sogni. E lui: «Ipotesi improbabile: Luigi, quando ho scritto Il poeta, era vivo e vegeto».
Si diceva, ed era, liberale: anche in questo atipico, nel mondo cantautorale. E ai colleghi «impegnati», «seduti sopra pacchi/ d'autentici milioni», dedicò Io canterò politico, sferzante sfottò. Salvando però «il candido, poetico Guccini», nonché Paoli, il grande maestro, e Tenco, «con il quale, invasati di jazz, pensavamo d'andare in America, sennò chi avrebbe sostituito Gershwin e Cole Porter?». Poco se la diceva, invece, con De André, De Gregori, Dylan: troppo grandi e troppo mitizzati per non destare i suoi estri da bastian contrario.
Ché il troppo successo, a Bruno, lo insospettiva: amò molto il Conte degli esordi, meno il Conte del successo internazionale.
Nel suo procedere tra cabaret e canzone, sedusse un pubblico fedele, di palato fine. Piero Chiara riconobbe al suo «non vasto registro d'autore» dignità e sincerità, Paolo Conte affidò alla sua voce Onda su onda e Genova per noi, Lucio Battisti gli diede E penso a te e Amore caro, amore bello. In compenso Bruno offrì occasioni di successo a molti artisti: tradusse Brel, Moustaki, Paul Simon, Roberto Carlos, scrisse per Mina, Gabriella Ferri, Serge Reggiani, la Vanoni (L'appuntamento, Dettagli), Mia Martini (Piccolo uomo, Almeno tu nell'universo) e Loredana Berté, traducendo per lei Djavan. Inventivo fino alla dissipazione, saziò tra jazz, canzoni d’amore, satira, lessico familiare, scrisse due musical, un fanta-giallo - Il caso del pompelmo levigato - e fu conquistato dal demone della poesia. Che gli ispirò raccolte come Esercizi di sguardo, I mari interni, Riapprodi. Una delle sue liriche oggi mi commuove più d'ogni canzone. Dedicata al Parkinson, dice: «La mia mano farfalla/ bestiola spaventata/ frullo d'ali improvviso/ di preda impallinata...

ha una sola speranza/: che voi dimentichiate/ le sue dita agitate».

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