Controcultura

Addio a Luigi, sipario sul teatro De Filippo

In una famiglia di grandi portò un tocco di leggerezza. E alcune idee innovative

Addio a Luigi, sipario sul teatro De Filippo

Quant'è difficile essere erede di un Grande. Se poi in famiglia i Grandi sono addirittura tre, e oltre che figlio si è anche nipote d'arte, allora la vita (artistica) dev'essere un vero inferno. Eppure, anche possedendo gran parte del leggendario talento della stirpe De Filippo, l'erede Luigi (figlio di Peppino, nipote di Eduardo e Titina), uscito di scena ieri a Roma a 87 anni, non deteneva l'altro tratto tipico della dinastia: il caratteraccio. Dunque non solo ha sempre portato con signorile disinvoltura il peso di un cognome che deve avergli creato più problemi che vantaggi (al contrario del cugino Luca, che godeva della maggiore considerazione riservata a suo padre Eduardo, rispetto allo zio Peppino) ma soprattutto cercò sempre di sanare la clamorosa divisione umana e artistica che per quarant'anni aveva opposto i due iracondi parenti.

«Questo spettacolo rappresenta per me un risarcimento della vita», confidò al Giornale solo tre mesi fa, quando, come in un'ideale chiusura del cerchio, per la prima volta aveva messo in scena un testo dell'amato-odiato zio (al quale aveva collaborato, però, anche il padre): Natale in casa Cupiello. «Per una vita intera ho tentato di riappacificarli, quei due. Talvolta ci riuscivo; ma durava poco. C'era fra loro una rivalità inevitabile: due galli nello stesso pollaio... Oggi però mi pare di rivederli finalmente affratellati». La cifra umana di Luigi De Filippo - simile in questo alla leggendaria zia Titina, anch'essa invano storica mediatrice tra i due «galli nel pollaio» - sta tutta qui: nella sua umile, ostinata ricerca di pace familiare. La qualità artistica, invece, è stata inevitabilmente offuscata dalla titanica stazza di Peppino: se non avesse avuto per padre uno dei più grandi attori comici del Novecento, Luigi avrebbe potuto pienamente esplodere per quel che realmente era: un talento naturale, di quelli rari, alla cui simpatia trascinante e alla contagiosa ironia era difficile resistere.

Come attore cinematografico lo si può ritrovare, al fianco del padre, in alcuni piccoli gioielli degli anni '50-60, come Policarpo, ufficiale di scrittura di Mario Soldati o Arrangiatevi di Mauro Bolognini, e in innumerevoli pellicole minori oggi divenute veri cult (Il segno di Venere, Cerasella, Chi si ferma è perduto) in cui lui faceva per il padre ciò che il padre faceva per Totò, elevando a rango d'arte il ruolo della «spalla». Cioè dell'attore cui il protagonista si appoggia per le proprie battute, «e che non è per questo un attore di minor importanza - diceva - ma deve risultare, anzi, bravo quasi quanto quello che si appoggia a lui». Con gli anni vennero alcuni camei di lusso in Ninì Tirabusciò con la Vitti, In nome del popolo sovrano di Magni e, per la tv, ne La Piovra 3 o recentemente Pupetta.

Ma fu soprattutto il teatro a farne risaltare il mestiere. E, considerata la scuola da cui proveniva, un gran mestiere, coltivato per più di sessant'anni. Non solo nei classici farseschi del padre, come Quaranta ma non li dimostra o Cupido scherza e... spazza, o in testi suoi come Storia strana su di una terrazza romana, con i quali, quasi orgogliosamente a distinguersi dalla malinconica comicità pensosa di Eduardo, si rideva, si rideva tanto, e si rideva soltanto. Ma anche nei classici universali come Plauto, Gogol', Molière, Goldoni, rifatti però «alla Peppino»; cioè secondo una rilettura partenopea, tutta trovate e gag, che irritava i critici paludati, ma letteralmente deliziava il pubblico. Dalla metà degli anni '80 fece compagnia per conto proprio, dal 2011 era diventato direttore artistico del Parioli di Roma (fino a poco prima gestito da Maurizio Costanzo), che volle affettuosamente ribattezzare «Teatro Peppino De Filippo», e con la morte prematura del cugino Luca, nel 2015, era diventato «l'ultimo De Filippo». Perché, fatta salva la grandezza dello zio commediografo e attore drammatico, Luigi era orgogliosamente consapevole della superiorità comica del padre. «Credo sia stato uno dei più grandi del secolo passato. Aveva una vena di comicità pura che Eduardo non possedeva. Per questo, dal punto di vista artistico, il divorzio non li danneggiò: al contrario. Peppino divenne un magistrale interprete dei classici di Plauto o Molière. Ed Eduardo poté creare i suoi amari scenari, facendo di Napoli la ribalta della commedia umana universale».

Consapevole ma non geloso. Sempre un passo indietro, all'ombra d'un cognome ingombrante. Eppure, nonostante questo, amato, rispettato ed applaudito. Ecco perché, con assoluto candore, poteva confessare: «Prima e dopo ogni recita mi tornano in mente due insegnamenti di mio zio. All'inizio: Il teatro è il racconto della lotta quotidiana per dare un senso alla propria esistenza. E alla fine: È il pubblico che ti giudica. E il pubblico non sbaglia mai. Se ti applaude, te lo sei meritato.

Se non lo fa, ben ti sta».

Commenti