Controstorie

Addio al record mondiale Tapas bar uccisi dalla crisi

Erano 232mila, però dopo il crollo economico e i divieti di fumo, oltre 50mila hanno chiuso

Roberto Pellegrino

Madrid

P er fare una colazione completa o bere un veloce caffè cortado con latte freddo. E risolvere anche un pranzo o una cena, fuori tempo massimo, quando le altre cucine chiudono. I bar in Spagna sono luoghi necessari, mitizzati nei racconti di Manuel Vázquez Montalbán ed Ernest Hemingway, ricercati dagli amanti delle tapas e di chi ama la vera atmosfera iberica con gli ambienti avvolti da una sottile cortina azzurra di fumo di sigaretta e le sagome delle piernas de jamon, i cosciotti di prosciutto pronti al taglio al coltello, appesi al soffitto come impiccati. Nei bar della penisola iberica, da Madrid a Barcellona, da Siviglia a Bilbao, da cinque secoli si sfama il popolo spagnolo. Dalle bettole andaluse, chiuse fino alle cinque di pomeriggio, paradiso di cerveza fredda e ogni genere di tapas, ai bar gourmet di Barcellona e Madrid, firmati da cuochi stellati, come il bar Tickets del pluripremiato Ferran Adrià, che ha tradotto la sua unica e costosissima cucina molecolare in piatti più a buon mercato per quelli che riescono a entrarci, non esiste prenotazione. Nei bar spagnoli si può pranzare a qualsiasi ora, al mattino, al pomeriggio, di sera e di notte, spendendo meno che in un ristorante. Si pranza o cena con tanti piattini di tapas, una semplice fetta di baguette alta tre centimetri con sopra di tutto: la seppia grigliata all'aglio e prezzemolo, le alici marinate in aceto scuro di Jerez, i chipirones, i calamaretti fritti e croccanti, il tonno rosso scottato al sesamo o di conserva, i peperoncini rossi dolci ripieni di merluzzo al limone, la salsiccia grigliata, il prosciutto Pata Negra o il salchichón con queso manchego, salame con fettine di formaggio di capra. Tapas significa «tappi» perché nell'Ottocento nelle bettole andaluse le fettine di pane coprivano i bicchieri per evitare alle mosche di terminare il loro volo direttamente nel vino dei clienti. E non può mancare la tortilla de patatas, patrimonio della gastronomia iberica: la super frittata di patate e cipolla, anche senza, ma con pezzetti di saporitissimo chorizo o peperoni verdi grigliati. Una fetta per fare colazione o un pranzo. Cucinata in padella in olio extra vergine o al forno, più alta è e più clienti attira. Una decina di «tappini» di pane per tapparsi lo stomaco, mentre si affronta un giro gastronomico della Spagna, terra feconda di numerosi prodotti, quasi al pari dell'Italia. Tutto accompagnato da un bel boccale di sangria, non ghiacciata, o un bicchiere di vino, meglio il Verdejo, un bianco che sfida il nostro Vermentino.

Ma la brutta notizia è che questi piccoli o grandi paradisi per la gola sono minacciati dagli strascichi della crisi economica. Se da un lato, la costante ripresa sta rimpolpando il settore delle costruzioni, quello più colpito dal tracollo finanziario spagnolo tra il 2007 e il 2014, e se dall'altro aumentano le aperture di ristoranti e hotel, i bar chiudono copiosamente. Nel 2004 la Spagna contava oltre 232 mila bar ed era il primo paese al mondo per numero di tali esercizi in proporzione alla sua popolazione (42 milioni di abitanti nel 2003, ndr). Sei anni dopo, nel 2010, il numero era vertiginosamente sceso a 200mila. Oggi ve ne sono poco più che 180mila in esercizio, con una differenza di quasi 20mila bar in otto anni.

Si tratta di un fenomeno che le associazioni che riuniscono i proprietari di bar attribuiscono, non solo al periodo più feroce della crisi economica, anche al processo demografico: l'inarrestabile spopolamento dei borghi piccoli e medi rurali in Spagna è pericolosamente endemico assieme all'invecchiamento della società che ha annullato la crescita demografica negli ultimi vent'anni. Come anche in Italia, nella terra di Cervantes le morti non sono più rimpiazzate da nuove nascite. E il lieve aumento della popolazione, registrato negli anni Novanta, è dovuto al fitto flusso d'immigrati che hanno aumentato la media dei componenti di una famiglia spagnola. Nelle zone centrali e meridionali della penisola iberica ci sono decine di borghi destinati a diventare fantasmi nei prossimi dieci anni. Un centinaio già lo sono, tanto che alcuni sono in vendita o sono stati già venduti a catene alberghiere che li stanno trasformando in hotel e spa. La burocrazia degli enti pubblici locali davanti all'opportunità di svendere un intero borgo destinato alla polvere, si annulla, generando infinite cause legali tra proprietari e Comuni sui reali confini delle proprietà in vendita. E, come anticipato, se i bar chiudono, tra il 2017 e i 2018 hotel e ristoranti sono aumentati di quasi 10mila unità, il 4,9 per cento in più rispetto al biennio 2015-2016. La ristorazione in Spagna genera ogni anno 130 miliardi di euro e impiega 1,63 milioni di spagnoli: nel 2017 le assunzioni sono aumentate del 2,1 per cento.

I bar spagnoli hanno patito anche l'effetto dell'entrata del divieto di fumare nel 2010: cinquemila bar hanno tirato giù la saracinesca nei primi due anni della legge, altri tremila tra il 2013 e il 2017.

Il numero di bar è precipitato ai livelli del 1997, prima del boom del Duemila. Riuscite a immaginare l'investigatore privato Pepe Carvalho, uscito dalla generosa penna di Manuel Vázquez Montalbán, che chiede, inutilmente, un vermut in un fast-food di Barcellona perché non ha trovato un bar aperto? E che direbbe Hemingway, padre di robuste bevute, davanti a una sanissima centrifuga di finocchio e mela per colpa di questo de profundis di bar?

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