Cultura e Spettacoli

«Aeropoema», quei solidi versi scritti sull’aria

Un tempo, andare per cieli era un gesto magnifico, un sogno improbabile realizzato solo nelle rêveries e nei miracoli. Gradualmente, è entrato a far parte di ogni vissuto. A volte come ovvietà e momento corrivo, basso, perfino noioso. O come pausa inevitabile negli spostamenti. A chi interpreta in questo modo la sublimità anomala d’un gesto quale l’alzarsi da terra, va consigliato La psicoanalisi dell’aria di Gaston Bachelard, oppure l’ultimo libro di Mario Baudino. Il quale, di fronte al volo, sembra ancora scosso da una meraviglia permanente. E, quasi posseduto da una sorta di icarofilia, ha scritto Aeropoema (Guanda, pagg. 77, euro 10), precipitato di stupori arcaici e postmoderni, di spaesamenti assoluti e gesti abituali per un viaggiatore sfinito da attese, scali, sonnolenze, sfasamenti da fuso orario, da compagni di rotta coatti e dalle loro storie. Esperienze, vicende che si intersecano, sfumano l’una nell’altra.
Il volo, in fondo, è ancora un momento sospensivo, eccezionale dell’esistere: interrompe o accelera lo scorrere della vita, modifica prospettive, rimescola e rifonde i cinque sensi. Tutto, in aria, appare illuminato da altre, diverse luci. Il mondo delle abitudini diventa uno sfondo lontano, voci e rumori quotidiani si riducono a una sonorità unica e diffusa, forse confusa, indistinta. Aeropoema si incarica, in verità, di verbalizzare simili stati vorticosi e, insieme, straordinariamente fissi. Perché la vita guardata dall’alto conosce una strana forma di immobilità. E qui, per «alto» non si deve intendere soltanto la spazialità. L’ottica del volo si eleva anche sopra il tempo, riassembla passato e presente, mette insieme quanto accade adesso con quanto è avvenuto un tempo. Per questo, nel poema di Baudino si ricongiungono storie lontane e prossime, miti e biografie. Momenti amalgamati, incollati da una scrittura sovraccarica, stratificata su registri e lingue diverse, zeppa di modelli, tracce di maestri in ombra o in evidenza, echi d’una classicità rivisitata attraverso la prova del volo.
Un poema, quello di Baudino, dove la vita appare mix di pace e furia, di entusiasmi apicali e tetre, improvvise disforie che disinnescano oracolarità e ricordano che l’autore resta, in fondo, un erede dei cosiddetti crepuscolari. Che si conclude (provvisoriamente?) con un ritorno a terra, forse con il richiamo della fine d’un nostos, del viaggio ancestrale e fondamentale che tutti noi, volta per volta e caso per caso, siamo incaricati di riprendere, riattualizzare.

Rivivere.

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