Politica

All’Unità d’Italia servono più simboli che finanziamenti

Caro direttore,
in questi giorni si è aperto un dibattito, per certi versi proficuo, sulle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d'Italia. Il programma iniziale, studiato dal governo Prodi, spiccava per magniloquenza, sebbene alcuni progetti da stanziare avrebbero potuto sembrare alquanto avulsi dal contesto e dal vero senso della commemorazione. Una grandeur che alla luce della crisi economica odierna è insostenibile, come finanziariamente insostenibili appaiono i lavori previsti nella cosiddetta seconda tranche. Ma questo non deve distoglierci dal senso vero della celebrazione: nessuna festa comunitaria si misura per il denaro speso, semmai per la profondità del sentimento collettivo con cui ci si appresta a rinnovarne il significato più profondo e attuale. Per questo motivo, sono convinto che sia necessario investire energie e idee, ma fuori da ogni retorica e dalla tentazione di trasformare l'appuntamento in una lunga lamentazione.
D'altro canto, mi sembra che la discussione iniziata da Ernesto Galli della Loggia sul senso delle celebrazioni e poi allargatasi su tutti i quotidiani e con interventi di numerosi intellettuali e storici sia comunque un primo passo. La cosa più importante, più degli appuntamenti, dei convegni, delle mostre, dei restauri che si possono finanziare, è una presa di coscienza sull'essenza dell'Italia e dell'essere italiani oggi. Una presa di coscienza che la storiografia in qualche frangente ha contribuito a far crescere e che in altri ha impedito, generando ulteriore confusione.
Tutti noi siamo consapevoli dei nodi insoluti che restano nella storia italiana dalla sua fondazione, tanto che l'identità degli italiani si fortifica per contrasti: tra laici e cattolici, liberali e socialisti, riformisti e massimalisti, democratici e fascisti, democratici e comunisti, centralisti e federalisti, nordisti e sudisti, statalisti e capitalisti. E alla luce di queste ricorrenti dicotomie, sono stati letti e poi disgregati anche i pochi momenti unitari: così che il Risorgimento fu criticato perché fenomeno antipopolare e di élite, la presa di Roma per la connotazione anticlericale, la vittoria nella prima guerra mondiale perché troppo patriottica, il fascismo logicamente per le sue aberrazioni, la Resistenza comunista per il suo settarismo, la vittoria nella seconda guerra mondiale per la retorica che ne derivò. E si potrebbe continuare elencando i fenomeni divisi che non sono, si badi, le tensioni federaliste, come induce a credere Alessandro Campi, da sempre presenti nel dna italiano al nord e al sud, o le celebrazioni della battaglia di Legnano, che pure è in nuce un momento aggregativo della nostra nazione, bensì tutte quelle convenzioni ad excludendum, spesso di natura moralisteggiante, che hanno contraddistinto negli ultimi sessant'anni soprattutto la sinistra. E di cui l'antiberlusconismo di maniera è solo l'ultimo brutto esempio.
Nonostante i lai degli intellettuali, l'Italia comunque esiste. Anzi, esiste prescindendo dagli storici e dai sociologi e dai politologi e perfino dai politici che la vorrebbero morta. Esiste perché trova radici in ambiti prepolitici, come la lingua e il patrimonio culturale e spirituale che abbiamo alle spalle. E di cui ci vantiamo con orgoglio. Questa identità è complessa e spesso si fonda per antinomie, ma non per questo è meno solida e non a caso da 150 anni permette che il patto sociale tra italiani ricchi e poveri, del nord e del sud, giovani e vecchi, colti e incolti, resista e in qualche frangente, di recente per esempio durante il terremoto in Abruzzo, dia anche segni concreti di un'appartenenza comunitaria a un determinato luogo e a una solidarietà che spiega e rinnova più di qualunque dichiarazione il sentimento di unità nazionale. Così come questa identità nazionale si fonda su molte identità locali: un'Italia unita che ancora si riconosce nelle tante Italie, nelle tante città che danno senso alla nostra storia e alla ricchezza delle nostre tradizioni. Un'Italia che si unisce attraverso un percorso di annessione, piuttosto che un processo federativo che pure ha avuto ed ha una legittimità storica e culturale. Anche per continuare a riflettere su una questione così importante, alla ricerca di una memoria condivisa, la celebrazione di questo anniversario può essere d'aiuto.
Ecco, se potessi dare un indirizzo alle celebrazioni dei 150 anni, inizierei da qui. Non si tratta di progettare mostre o percorsi didattici, né musei che pure esistono, o finanziare iniziative che pure saranno finanziate. Ma individuare i simboli di questa appartenenza. Carlo Azeglio Ciampi è stato il presidente che ha più di ogni altro fortificato l'identità italiana negli ultimi anni: e non sono serviti progetti imponenti, ma è bastato che si recasse a commemorare gli italiani morti a Cefalonia. Morti dimenticati di una resistenza che, per colpa della storiografia dominante e anti-italiana, non doveva essere ricordata. Ridare dignità a un simbolo è bastato.

Anche su questo - a mio avviso - gli storici dovrebbero lavorare in prospettiva del 2011.
*ministro per i Beni culturali

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