Controcultura

Amedeo Bocchi, il padre del simbolismo familiare

Nel 1910 alla Biennale di Venezia conobbe l'opera di Klimt. Che poi lo influenzò in chiave intimista

Amedeo Bocchi, il padre del simbolismo familiare

Tra tanti grandissimi artisti che hanno lasciato le loro opere all'Accademia Nazionale di San Luca e che, per un paradosso della storia, si vedono oggi, meglio che a Roma, in una bellissima selezione al Forte di Bard, in Valle D'Aosta, non è stato difficile scegliere l'immagine guida, opera di un artista misterioso e segreto, e certo poco conosciuto: Amedeo Bocchi.

È una ragazza silenziosa e gentile che ci invita, guardandoci in tralice, senza volerci sedurre. Difficile intendere se chiama o è chiamata, mentre attraversa le stanze di una casa accogliente. La sua attitudine richiama quella della Ragazza con l'orecchino di perla di Vermeer. D'altra parte, è la forza delle immagini non in posa a determinare un'intesa sottile. E questa bella giovinetta è eternamente viva nel suo incedere, pur celando nello sguardo il presagio di una morte precoce. Si tratta di Bianca, la figlia del pittore, morta a ventisei anni nel 1934. Qui ci appare quindicenne, nel 1923, in piedi, mentre attraversa le stanze della casa portando una teiera di ceramica. Bianca, adolescente, pallida, turbata, cammina, elegantissima in una gonna verde con motivi a fiori, e ci chiama con distaccata complicità.

È una delle immagini più pure del Novecento italiano, libera dal regime delle avanguardie, espressa nella pittura fresca e spontanea che si misura con alcune esperienze del più sofisticato Novecento europeo di quegli stessi anni, da Marco Cavalieri, a Giuseppe Biasi, a Zuloaga. La delicatezza umana di Amedeo Bocchi si sublima in un'immagine che nulla deve dimostrare, se non l'anima sensibile di Bianca, in un improvviso della sua vita breve. Sentiamo, in quelle stanze, una musica. Potrebbe essere Debussy, Ravel o Satie. Esce da un pianoforte, e arriva filtrata. Ecco, la sentiamo meglio, è la Pavane pour une infante défunte di Ravel. Un presagio. Bianca non è sola, negli ambienti del Forte, tra gli ospiti, invitata dall'Accademia di San Luca: incrocia sguardi e condivide sospiri con la Flora di Francesco Mancini, con la Speranza di Angelika Kauffmann, con il volitivo e velato richiamo di misteriosi turbamenti di Giuseppe Cades, con l'infantile presenza di Élisabeth Vigée-Le Brun, con l'incedere compiaciuto e padronale della marchesa Marianna Waldstein interpretata da Appiani, con l'ombrosa adolescente di Tranquillo Cremona, con la madre sofferente di Virgilio Guidi. Presenze, inquiete e parlanti, tra sussurri e malinconie.

Ma Bianca, fra tante anime inquiete, appare la più viva. Amedeo Bocchi assomigliava alla figlia prediletta. Era un uomo fine ed elegante, indispettito dalla furia delle avanguardie, e curioso delle ricerche contemporanee più intimistiche: da Renoir a Bonnard, a Matisse, a Klimt. È invitato alla Biennale di Venezia nel 1910, l'anno in cui Klimt propone una grande personale. Lo guarda, lo invidia e, nello stesso anno, è a Padova per studiar bene la tecnica dell'affresco con Achille Casanova nella Basilica di Sant'Antonio. Il futurismo non è affar suo; semmai Sartorio e Duilio Cambellotti. Così nel 1911, in occasione del cinquantenario dell'Unità d'Italia, Bocchi, con gli altri artisti parmigiani, Latino Barilli, Daniele de Strobel e Renato Brozzi, ricostruisce la Camera d'oro, con le storie di Pier Maria de Rossi e Bianca Pellegrini, affrescata da Benedetto Bembo nel castello di Torrechiara. È una risposta a Klimt, discreta, sommessa e insinuante. Questo gli consente di non sentirsi lontano dal grande artista viennese quando, tra il 1913 e il 1915, decora la sala del consiglio della Cassa di risparmio di Parma. Anche questa impresa è indenne da qualunque contagio dell'avanguardia. Parma resta un'isola felice senza essere provincia. A partire dal 1915, Bocchi si trasferisce a Roma, e ha studio in Villa Strohl Fern. Qui si sposa, in seconde nozze, nel 1919. Viene invitato ancora alla Biennale, entra all'Accademia di San Luca, persegue una poetica intimista dipingendo i suoi famigliari: la moglie, la figlia, i genitori. La vita quotidiana entra nella pittura.

L'anno 1919 è anche quello di Parco, e di Bianca e di Collina, dipinti nei quali le donne amate sono immerse in vasti spazi bagnati da una luce paradisiaca. Bianca ritorna in pose diverse, in una irreparabile solitudine, distaccata e irraggiungibile. Bocchi dipinge pitture di atmosfere, e non deve dimostrare niente. La famiglia si riunisce, in un rito di religione domestica, in un'altra opera sospesa nel suo tempo: La colazione del mattino. Poco tempo dopo un altro rito di preghiera è nella Convalescente. Le emozioni, i sentimenti, i turbamenti sono filtrati dalla luce. Una luce spirituale più che fisica; uno stato d'animo; sul tavolo tra vetri e argenti, il tulipano rosso è come una ferita.

Bocchi ha intuito che le persone a lui più vicine, in particolare Bianca, sono anime. Ed egli anime dipinge. Tale è anche Bianca in abito da sera, con il corpetto di raso bianco e nero e la gonna plissettata, negli spazi angusti della casa. Bocchi sembra inseguire un tormento, una inquietudine. In fondo Bocchi non è uscito, dopo Klimt, dalle atmosfere del simbolismo. Le ha trasferite in una dimensione famigliare. Nel 1927 dipinge Malinconia, un'altra immagine interiore in un paesaggio desolato: una donna vestita di nero sta accoccolata nascondendo il volto. Ci parla di un dolore incontenibile, di una concentrazione, di una irreparabile solitudine. Questo è Bocchi, con il continuo ritorno ai verdi paradisi della sua infanzia a Parma, nei lunghi pomeriggi di Villa Strohl Fern a Roma.

E così, senza mutamento, per molti anni ancora.

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