Controstorie

Anche gli assi del calcio dicono no a Maduro Una raffica di diserzioni ai raduni della nazionale

Da Junior a Jefferson fino a Josef, sono già sette i calciatori, ingaggiati all'estero, che non hanno risposto alle convocazioni. E il fenomeno si sta allargando ad altri sport

Luigi Guelpa

Junior, Jefferson, Josef, Rolf, Ronaldo, Yangel e Cristian sono sette ragazzi venezuelani speciali. Vivono la condizione di un esilio dorato negli Stati Uniti, anche se il cuore palpita per le vicende politiche e sociali che stanno mettendo in ginocchio la loro nazione. In qualche maniera sono felici di essere in sette, rappresentanti di una simbologia che rende il numero ancora più speciale. Sette sono i giorni della creazione, sette sono i sacramenti del cristianesimo, sette sono le porte dell'islam che si aprono su sette terre e sette cieli e sette sono i passi fatti da Buddha appena nato. Non finisce qui: sette sono gli spiriti e sette sono i pianeti del primo atlante astronomico a essi collegati. Sette sono anche le vacche sacre cantate da Omero e al sette Platone riconduceva l'anima mundi. Per non dire dei «Magnifici sette» originati dai «Sette samurai» e del «Settimo sigillo».

Il sette conserva per loro qualcosa di magico, un incanto che va preservato se non altro per generare una qualche aspettativa di salvezza per un Paese che ha perso la propria identità. In questo momento sono i sette atleti più famosi del Venezuela, calciatori impegnati nel campionato a stelle e strisce, alfieri della nazionale Vinotinto che però hanno deciso di ignorare almeno fino a quando Maduro rimarrà al potere. Con il loro gesto stanno scuotendo le anime e infiammando i cuori di tutti coloro che sulla rotta Caracas-Maracaibo-Merida sognano un Venezuela non più sequestrato da una povertà vigliacca e feroce. Junior Moreno è il più famoso tra loro. Ha 25 anni, difende i colori dei Washington United e dal ritiro della squadra in Florida ha deciso di lanciare un messaggio senza mezze misure: «Nicolás Maduro deve fare un passo indietro. Il paese è debilitato, i disordini sociali e la scarsità di cibo sono inaccettabili. Ho la fortuna di vivere a distanza di sicurezza dall'inferno, ma mi sento parte integrante del Venezuela». Junior non ha sposato una qualsiasi causa politica, e soprattutto non vuole diventare alfiere di una corrente contro Maduro e pro Guaidó, «di sicuro il cambiamento deve partire dal basso, da noi cittadini. Quello che sta accadendo nelle ultime settimane mi dà una buona sensazione di speranza. Credo che i cambiamenti possano essere repentini, ma ciascuno di noi deve fare la propria parte». Junior è originario di San Cristobal, 800 chilometri a sud-ovest di Caracas. La sua famiglia a dicembre si è recata in visita di alcuni parenti in Argentina, ma da quel momento non ha fatto più ritorno a casa. «Ci sentiamo al telefono tutti i giorni, ma sono molto preoccupato per i miei fratelli Carlos e Marcelo. Anche loro sono calciatori, ma vivono in Venezuela e temo che questa mia presa di posizione possa in qualche modo danneggiarli».

Josef Martinez, 26enne centravanti dal gol facile, vive e gioca ad Atlanta dopo tre stagioni in Italia nel Torino. «Abitare negli Stati Uniti mi regala una prospettiva molto imparziale e realista di quanto sta accadendo dalle mie parti. Dobbiamo fare qualcosa di importante e clamoroso. Solo così possiamo dare una scossa all'opinione pubblica. Per queste ragioni Junior, io e gli altri nostri cinque compagni abbiamo deciso di non rispondere più alle convocazioni della nazionale». La Vinotinto sarà impegnata il prossimo 22 marzo al Santiago Bernabeu di Madrid contro l'Argentina di Leo Messi. Un'occasione importante per mettere in risalto, in mondovisione, i problemi di una nazione dilaniata dalla povertà. «Credo che il vuoto che lasceremo avrà delle ripercussioni positive. Giocare quella partita significherebbe appiattirci alle posizioni di un governo che non ci appartiene», ammette Ronaldo Peña, 22enne attaccante in forza alla Dynamo di Houston. Mentre un giovanissimo Cristian Cásseres, appena 18enne, da New York dimostra di avere una maturità mentale sorprendente. «I generali argentini nel 1978 hanno fatto leva sul pallone per consolidare il potere, non permetteremo ad altri di trarne giovamento. In questo momento il Venezuela non è libero e neppure democratico. Il nostro gesto è solo provvisorio. Torneremo a batterci per i colori che abbiamo scolpiti sulla pelle, a cantare a squarciagola sulle note di Gloria al Bravo Pueblo, ma solo quando si potrà parlare di democrazia senza temere per la vita».

Jefferson Savarino, 20 anni, è stato ingaggiato da un team di Salt Lake (nello Utah), si professa un estimatore di Chavez e di un socialismo condiviso non solo a parole. «Credo che dopo la sua morte si sia chiuso un ciclo importante e irripetibile. Maduro non ha il carisma, la personalità e le idee per portare avanti il progetto del comandante Chavez. Prima di partire per gli Stati Uniti non era tutto rose e fiori, ma di sicuro le condizioni di vita erano migliori di quelle attuali».

Dal canto suo Nicolas Maduro non ha preso ancora provvedimenti ufficiali sulla fronda alimentata dai «sette samurai», confidando nel lavoro e nella mediazione del tecnico Rafael Dudamel, fedelissimo della prima ora, ma inviso a buona parte della squadra. Il presidente venezuelano nel frattempo ha spostato i riflettori sul baseball, una delle discipline più praticate nel Paese. «Entro un anno il Venezuela sarà pronto per andare a Tokyo 2020», ha affermato lo scorso gennaio durante la festa nazionale dello sport. Maduro fa leva su una squadra allestita in larga misura da atleti professionisti nella Major league, la lega americana, per partecipare al torneo a cinque cerchi in Giappone. Nonostante le rassicurazioni del tecnico Omar Vizquel, anche i «player» sembrano sul piede di guerra. Lo si evince dalle recenti affermazioni di Sandy Leon, originario di Maracaibo, ricevitore dei Boston Red Sox, la squadra campione in carica. «Il caos venezuelano non ci permette di guardare agli impegni della nazionale con serenità. A questo punto attendiamo una decisione del Comitato olimpico, non vogliamo essere la squadra di Maduro o di Guaidó, bensì rappresentare il Venezuela.

Oggi ce ne sono due, nessuno dei quali è legittimo».

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