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Appello di professori e presidi: «No al lassismo, non fate copiare agli esami»

«Tolleranza zero» alle prossime prove di scuola media inferiore e superiore chiede il «Gruppo di Firenze». Solo in Italia tale monito non appare assurdo, dopo le tante scorrettezze denunciate dalla cronaca. Che la «furbizia» non rende però deve essere insegnato fin dall'asilo e in tivù

Accade in Italia che un gruppo di insegnanti e dirigenti scolastici avverta la necessità di lanciare un appello affinché «non si consenta di copiare agli esami». Verrebbe subito da commentare: solo in Italia può accadere un fatto del genere, perché in altri Paesi non avrebbe alcun senso. Non ci sarebbe alcun bisogno di reclamare la «regolarità» degli accertamenti di idoneità da parte dei «controllori». Sarebbe un dato acquisito fin dalla loro titolarità di «controllori». E sarebbe altresì la Grundnorm di un metodo didattico che sappia insegnare allo studente perché è bello il sapere e quanto non convenga l'ignoranza (e la furbizia, l'ansia, la miseria del copiare).
Se non che, appunto, siamo in Italia. E l'appello che viene presentato in una conferenza stampa oggi nel più antico liceo di Roma, il «Quirino Visconti», dal suo preside Rosario Salamone (primo firmatario anche dell'appello), si presta a qualche interessanti considerazioni.
L'appello è stato lanciato a fine maggio sul blog del «Gruppo di Firenze», nato nel 2005 sull'idea che la crisi della scuola «derivi in buona parte dalla svalutazione del merito, della responsabilità, del rispetto delle regole». E qui sorgerebbe spontanea una prima domanda: perché il senso di legalità e di responsabilità di entrambi, ispettori scolastici e studenti, non è per nulla un dato acquisito?
Torniamo all'appello, che correttamente evoca eclatanti casi di «non corretto svolgimento degli esami». La cronaca ne ha fornito esempi a iosa, specie nei casi - che a noi appaiono ben più gravi - di concorsi per esami ed esami professionali: tracce già conosciute (notai, magistrati), utilizzo di telefonini e altri fantasiosi stratagemmi, addirittura il black-out informativo sulla data del concorso (medici) fino al più antico, se vogliamo «romantico» metodo del «copiare» dal vicino di banco. Ma non c'è differenza alcuna tra i casi offerti dalle cronache? È lecito immaginare che i casi più gravi derivino da quelli meno gravi?
I docenti del Gruppo di Firenze lamentano con vigore che il lassismo strisciante agli esami di licenza media e media superiore possano «danneggiare fortemente la credibilità della scuola italiana e l'immagine degli insegnanti e dei dirigenti». Ora, se è vero che in una recente indagine è risultato che sette atenei italiani sono fra i primi 200 al mondo, che la media qualitativa dei nostri studenti che si recano all'estero viene giudicata buona se non ottima, potremmo facilmente dedurne che il sistema generalmente - almeno nelle sue punte di eccellenza - «tiene» e l'allarmismo è un po' ingiustificato. Si può paventare una complessiva perdita di credibilità dell'Istituzione scolastica dalla semplice «scorrettezza» perpetrata da uno studente di tredici o diciotto anni in difficoltà? Separando il grano dal loglio, si intuisce che il «copiare» o chiedere un suggerimento non è granché rilevante, mentre altre scorrettezze, tipo telefonini o truffe tecnologiche, sì, eccome.
Se tutti siamo totalmente d'accordo sul presupposto che la formazione di un concetto di «legalità» comincia dai banchi di scuola, appare sotto una luce deformata la paura che, come si legge nell'appello, «un malinteso atteggiamento di "comprensione" nei confronti degli studenti e la diffusa tendenza a considerare inutilmente fiscale la fermezza nel far rispettare le regole (e in alcune situazioni anche pressioni esterne) possono spingere a "chiudere un occhio" se qualcuno copia, a giustificare o a tollerare indebiti aiuti e persino comportamenti gravemente scorretti, come fornire ai propri allievi traduzioni e soluzioni». Si rischia, a leggere tali preoccupazioni, di trarne un di più di zelo in eccesso. Una rigidità che proprio mentre viene enunciata così enfaticamente denuncia la propria impotenza o, addirittura, il proprio fallimento.
Il problema vero, come si è visto, non sta infatti tanto nell'autorevolezza del circuito formativo italiano, quanto nella sua incapacità a fornire alla maggior parte degli studenti - che abbiano o meno copiato - effettivi sbocchi sul mercato interno sia della ricerca quanto del lavoro e dell'innovazione. Temere di «ferire la giustizia e il merito» (sic!) soltanto per una sbirciata all'esame o per un suggerimento chiesto all'ispettore sinceramente sembra un po' esagerato.
Essi scrivono ancora, in questa feuille de doléances che «una scuola in cui venga in qualche modo compromessa la regolarità degli esami, abitua gli studenti alla scorrettezza, commette un'ingiustizia verso chi conta solo sulle sue forze e infine svaluta il senso dell'esame come momento importante di verifica delle capacità degli allievi. Viceversa, l'esempio di comportamenti coerenti con i valori che si insegnano costituisce per i giovani la più efficace educazione alla legalità». Ancora una volta sembrano peccare, i promotori, di mancanza di senso delle proporzioni. Sembrerebbe di capire che una prova d'esame in sé possa rappresentare il «viatico» per una deformazione mentale - cioé che gli obbiettivi si possano ottenere con scorrettezze - capace di accrescersi nel corso degli anni successivi fino al punto di fare, dei nostri studenti di oggi, i cittadini inclini alla «furbizia» di domani (male atavico e conclamato della nostra celebrata «italianità», peraltro). Ma non sta piuttosto nel comportamento diffuso del giorno per giorno, dall'asilo in poi, il profondo dipanarsi di una carenza di legalità cui tanti fattori contribuiscono, la maggior parte dei quali indipendente dall'ambito scolastico? Come si può ritenere che il professore esaminatore possa calare improvvisamente in un'aula d'esami rifiutando improvvisamente «aiutini» o tolleranza che altri, prima di lui, avranno a poco a poco utilizzato per mantenersi a galla? E quanti professori possono essere, nella loro carriera scolastica, tanto irreprensibili (nella gestione delle loro assenze, così come in quella delle loro responsabilità) da potersi ergere come giudici implacabili di un singolo esame? Non sta forse nella carenza complessiva di stimoli didattici, nell'incapacità di parlare a volte il linguaggio dei ragazzi, di sapersi adeguare ai tempi, il vulnus di una didattica che non penalizza tanto i superbravi - abbiamo visto che prima o poi emergono, e sempre più fuori d'Italia - quanto la media degli altri, dei ragazzi che pure nella vita dovranno (spesso sapranno) farsi strada in un contesto tanto complicato e cervellotico, tanto burocratico e nevrotico, ora lassista ora iperzelante, come quello del Belpaese?
In fin dei conti, non è con la «tolleranza zero» agli esami che si combatte il malcostume della piccola «furbizia». E non si può cominciare certo da lì. Saranno gli stessi studenti, se invogliati e resi partecipi di un modello di scuola diverso, capace di incuriosirli, interessarli a rendere del tutto superfluo il «professore poliziotto» (fattispecie che dovrebbe deprimere un docente). O, peggio ancora, l'odioso Franti, delatore della sbirciatina altrui.
Sia ben chiaro: non c'è alcun tentativo di accondiscendenza, in questo discorso. Il merito va aiutato a emergere. Ma premiare lo studente modello non deve consentire di schiacciare gli altri sotto il peso di una rinuncia, facendo assurgere una lacuna a condanna d'ignoranza perpetua senza alternativa. il mors tua vita mea non ha mai portato bene.

E, se vogliamo, non pare esser mai stato un valido fondamento della didattica.

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