Cultura e Spettacoli

Ballando al ritmo della Crisi del ’29

Ogni tanto capita di imbattersi in un autore che lega il proprio nome a un unico romanzo o quasi. È il caso di Horace McCoy, penna finissima e molto quotata nel panorama della letteratura americana classica. Il suo Non si uccidono così anche i cavalli? (Terre di Mezzo, pagg. 121, euro 12), nella bella traduzione di Luca Conti, è l’unico vero romanzo di cui restino tracce importanti nelle cronache letterarie. Nato in Tennessee nel 1897, come molti altri autori Usa McCoy svolse svariati lavori, prima di cimentarsi, con successo, nell’attività di scrittore. E, sempre rispettando la tradizione, servì la patria con onore nella prima Guerra mondiale. Non si uccidono così anche i cavalli?, da parecchio tempo indisponibile in Italia, fu pubblicato nel 1935, a pochi anni dalla Grande Depressione. Ed è nel periodo più nero dell’America che il romanzo si colloca. Una trama davvero atipica che evidenzia l’animo travagliato dell’autore, la sua propensione ad atmosfere cupe e a protagonisti senza un futuro. Robert e Gloria, due spiantati in cerca di un ingaggio a Hollywood, partecipano a una maratona di ballo, allettati da un montepremi che non cambierà loro la vita, ma potrà togliere parecchie castagne dal fuoco e magari aprire le porte del mondo del cinema. È una competizione feroce, in un mondo che sembra aver completamente perso di vista la pietà umana. Considerato il periodo in cui fu scritto, la lingua e le situazioni sono scabrose, e fanno del romanzo dalle sfumature noir un libro fin troppo prossimo alle atmosfere dei nostri giorni, dove fa più notizia la tragicomica vicenda giudiziaria di un’ereditiera sciocca e viziata, rispetto ai veri problemi del mondo.
McCoy viene tuttora considerato un maestro misconosciuto dell’hard boiled. Ma, con questo suo romanzo, si direbbe che abbia precorso i tempi, raffigurando un’America disperata e già malata del mito della celebrità. Fra gangster in fuga e donne incinte in odore di squalifica, sedicenti «Leghe delle Madri Virtuose» e intrallazzoni, fa effetto scoprire che, pur di far salire la temperatura e l’interesse dei media, si pensasse di poter organizzare un matrimonio combinato sulla pista da ballo. Il «Grande fratello» (nel senso di trasmissione televisiva) non esisteva ancora, ma non mancava la voglia di protagonismo, un anelito che solo la disperazione e la fame, da un lato, o il vuoto culturale, dall’altro, riescono ad alimentare. McCoy è maestro nella sua fredda, agghiacciante cronaca della pochezza umana. Se Sidney Pollack non ne avesse tratto nel ’69 l’omonimo film fortunato e controverso, forse oggi di McCoy non resterebbe traccia.
Ma la forza emergente dei due protagonisti, Jane Fonda e Michael Sarrazin, e la disillusione di un regista che aveva mostrato di che pasta era fatto fin dagli esordi, sancirono il ritorno di un libro semi-dimenticato e scomodo per l’America.

Non a caso Time lo definì «uno dei romanzi più fastidiosi mai pubblicati in questo paese».

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