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Con Barak e Netanyahu Israele è in buone mani

Sull’ala di un aereo della Sabena alcune figure in tutta bianca si schiacciano contro la parete del velivolo per evitare di essere visti dai finestrini dai terroristi palestinesi che lo hanno sequestrato con tutto il carico di passeggeri. È una foto in bianco e nero del 1972. In un attimo gli uomini appostati sull’ala con le armi in pugno, balzeranno all’interno e libereranno gli ostaggi. Fra loro si identificano Ehud Barak, comandante dell’unità Sayeret Matchal, e Bibi Netanyahu, uno dei suoi uomini. Una coppia di eccellenza, di idee completamente diverse, intellettuali e guerrieri, l’uno bravo economista, l’altro stratega eccezionale, che quali che siano le critiche nei loro riguardi, ogni Paese vorrebbe avere nella sua classe dirigente.
Adesso la squadra la guida Netanyahu, ed è quella del governo. Ma Barak è ancora insieme a lui, nel ruolo di ministro della Difesa, con l’intenzione di difendere Israele. Proponiamo l’immagine della Sabena non certo per sollevare inutili emozioni, ma per spiegare quello che sta succedendo oggi in Israele evocandone la storia e cercando così di evitare che si strologhi su destra e sinistra in maniera tutta europea e disadatta a quel Paese. Il governo Netnayahu-Barak-Lieberman viene descritto nelle cronache come un ircocervo animato tuttavia da malvage opinioni di destra, tipiche di Netanyahu, e mal coperte dalla foglia di fico di Barak, mentre “l’oltranzista” Lieberman sogghigna nell’ombra, certo di riuscire a fare la sua politica “razzista”.
Adesso guardiamo alle cose come stanno. Netanyahu ha sin dal primo momento cercato di formare un governo di unità nazionale, innanzitutto rivolgendosi a Tzipi Livni. Non voleva foglie di fico, ma unità nazionale per un Paese in pericolo. La Livni, anche se Bibi prometteva di condividere le linee di Annapolis e della Road Map, ha preferito restar fuori per far la figura di un eroe pacifista di fronte a un governo ristretto di destra. Ma Barak, pur provenendo da un partito di sinistra, è riuscito a convincere la sua maggioranza che ci sono due motivi importanti per accettare la proposta di entrare nel governo: all’opposizione il Labour non ha niente da guadagnare se non essere schiacciato dalla Livni, mentre al governo avrà un ruolo importante che può ricostituirne la forza perduta. E soprattutto che al governo può contribuire in un compito essenziale per cui occorre l’unità nazionale: difendere il Paese dal pericolo iraniano mentre la bomba atomica è in vista, e i suoi alleati Hezbollah e Hamas minacciano Israele sempre meglio armati e determinati a distruggere lo Stato ebraico.
Bibi deve conquistare Obama e gli europei per convincerli a applicare sanzioni decisive. Bibi sa che la presenza di Barak sarà utile; e che, alla peggio, lo sarà la sua esperienza strategica. Bibi e Barak sono insieme dunque per affrontare insieme il grande rischio. Lieberman a sua volta viene chiamato “oltranzista” con superficialità, perché ha puntato la campagna sul problema del crescente rifiuto dello Stato Ebraico da parte degli arabi israeliani, e della loro rilevante collaborazione con i terroristi: da qui la richiesta che dichiarino fedeltà. Non si conosce nessuna dichiarazione razzista di Lieberman. È un pragmatico conservatore che ha talora ipotizzato scambi territoriali in cui le parti abitate da arabi vadano ai palestinesi e quelle abitate dagli ebrei a Israele. Ciò non piace agli arabi israeliani, ma è tutt’altro che irragionevole. Del resto l’idea dello swap è sempre presente in tutti colloqui di pace.
Infine: il nuovo governo rifiuta l’idea di due Stati per due popoli, si dice. Ma questa formula è in tutta l’opinione pubblica corrosa dal rifiuto di fatto da parte dei palestinesi e del mondo arabo in genere alle ripetute offerte di Israele e alla sua stessa esistenza. Dopo tanti tentativi (di Rabin, di Barak, di Sharon...) i fatti hanno avuto la meglio: il grande rifiuto di Arafat a Camp David o l’atteggiamento di Hamas dentro Gaza liberata sono la spiegazione del declino della formula magica, insieme alla mancanza di interlocutore attendibile. Con chi trattare? A quale leader fare riferimento per ripristinare la road map? Al fragile Abu Mazen? Ai feroci capi di Hamas? Non sarà forse più fruttuoso, come suggerisce Netanyahu, cercare di favorire in ogni modo una costruzione civile e politica che possa fare dei palestinesi un interlocutore vero? Nè Bibi, nè Barak, nè Lieberman sono contro una pace con i palestinesi: sembrano piuttosto ammaestrati dai palestinesi stessi a non abbandonarsi ai bei sogni.
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