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Beffa alla cacciatrice di pedofili Il giudice: «Visitava siti osceni»

Pordenone, paradossi della giustizia: a processo perché entrava nel Web proibito per scovare gli orchi

da Pordenone

Da dieci anni è l’incubo dei pedofili che infestano la rete. Ne ha scoperti e denunciati oltre cinquemila, compresi quelli che nel 2003 erano finiti intrappolati nell’inchiesta Pedoland. Il guaio è che, in quest’ultimo caso, la Procura di Ivrea ha infilato nell’elenco degli oltre 300 indagati anche il nome di Aurelia Passaseo, la cacciatrice telematica di pedofili che è pure la presidente del Ciatdm (Coordinamento internazionale delle associazioni a tutela dei diritti dei minori), che ha sede, guarda un po’, proprio nella sua abitazione di Pordenone.
«All’inizio non mi ero particolarmente preoccupata - spiega la Passaseo - e avevo capito che, nell’indagine condotta dalla polizia postale, avevano trovato tracce del mio computer, quello che utilizzavo per fare le ricerche dei maniaci da denunciare. Il guaio è che domani dovrò presentarmi in un’aula di tribunale a Pordenone, accusata del reato che con tutte le mie forze cerco di combattere da tanto tempo. Sono così mortificata che, d’ora in avanti, non so proprio se potrò ancora dare una mano alle forze dell’ordine. Se questa è la ricompensa, io mi arrendo».
Il viaggio di ordinaria follia nei corridoi giudiziari italiani comincia dunque quattro anni fa in Piemonte, dove con l’inchiesta Pedoland si cerca di sgominare una gang dedita a questo turpe traffico. Parte l’avviso di garanzia per la Passaseo, la stessa che aveva denunciato alla polizia postale la presenza di vari siti illegali. Per competenza territoriale, il suo fascicolo viene stralciato e inviato a Pordenone, dove la cacciatrice di pedofili è molto nota e apprezzata da poliziotti e magistrati. Non è un caso che l’attività investigativa della Passaseo sul mondo occulto del Web sia stata determinante per indurre il ministro dell’epoca a chiamarla a far parte della commissione incaricata di stendere un codice deontologico in materia.
«Ero certa che a Pordenone l’equivoco sarebbe stato chiarito - prosegue Passaseo -, ma non avevo fatto i conti con l’infernale macchina della giustizia italiana». L’accusa fa riferimento all’art. 600 quater del codice penale, che prevede fino a tre anni di carcere per chi «consapevolmente si procura o dispone di materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale di minori di anni 18». Siccome sul computer di Passaseo quel materiale c’era («Per forza, ero finita in quei siti che avevo regolarmente denunciato»), il suo nome è finito nel registro degli indagati.
Il pm di Pordenone, Antonella Dragotto, nel maggio del 2005 chiede l’archiviazione perché l’indagata «è conosciuta da anni dagli uffici di questa procura per aver presentato numerose denunce contro siti pedopornografici. È quindi evidente che il possesso, da parte sua, di materiale pedopornografico, presso la sede legale del Ciatdm si giustifica pienamente con l’esercizio dell’attività cui si dedica da anni».
Il gip ritiene però di non soddisfare la richiesta e il procedimento va avanti. «Pensi che qualche mese fa mi hanno perfino proposto di patteggiare una pena minima - sbotta Passaseo -. Ma patteggiare equivale ad ammettere una colpa che non ho». E allora domani, giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, si va in aula, e vediamo che succede. «Se serve - conclude amareggiata - chiamerò a testimoniare autorevoli membri degli ultimi due governi».

Comunque vada, i pedofili hanno una cacciatrice in meno alle calcagna.

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