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Belgrado cambia volto ma col tocco degli emiri

Un ultramoderno quartiere sorgerà sulle rive della Sava. Ma i cittadini contestano la cementificazione

Belgrado cambia volto ma col tocco degli emiri

dal nostro inviato a Belgrado

La ragazza parla bene inglese, e non capita di frequente da queste parti. Sta lì, graziosa sentinella davanti a un grande plastico piazzato in un punto di passaggio dell'area imbarchi dell'aeroporto di Belgrado, dedicato alla gloria locale e padre della seconda rivoluzione industriale Nikola Tesla. Il plastico è griffato BW (Belgrade Waterfront, in serbo Beograd na Vodi) e raffigura uno spoiler in materiale sintetico del futuro di un'ampia fetta della città, quella che si affaccia sulla riva orientale della Sava, uno dei due fiumi che attraversano la città con il Danubio, ma l'unico riconosciuto dai belgradesi come davvero cittadino. Si tratta di un progetto monumentale per la capitale serba che con languore orientale e frenesia occidentale gestisce la sua lunga transizione post-socialista e post-disgregazione della Jugoslavia, simboleggiata dal lento declino dell'alfabeto cirillico ormai diffuso solo nelle diciture ufficiali e quasi del tutto trascurato nei luoghi alla moda.

Una grande speculazione tra il quartiere centrale di Savamala e l'area fieristica a Sud della città, quasi due milioni di metri cubi finanziati in parte dal governo serbo condotto da Ana Brnabic, che i ragionieri del potere considerano la quinta leader mondiale in ordine cronologico a dichiararsi apertamente omosessuale; e in parte dalla società Eagle Hills di Abu Dhabi, specializzata in lussureggianti make-up urbani. Il centro del nuovo quartiere sarà il grattacielo Kula, che con i suoi oltre duecento metri diventerà la sentinella dei Balcani. Poi uffici, residenze, centri commerciali, parcheggi. Vuol dire soldi. Sviluppo. Posti di lavoro.

Eppure ci sono pochi belgradesi che non storcono il naso quando passano davanti al plastico, malgrado il timido ma invitante sorriso della ragazza. Quasi nessuno vuole la «gentrificazione» di quell'area, e poco importa se fino a oggi è stata abbandonata in alcune sue parti. Il movimento Ne da(vi)mo Beograd (che significa allo stesso tempo «non consegniamo» e «non soffochiamo» Belgrado), che riesce a esporre manifesti di protesta anche all'interno del cantiere e ha attivato un vasto network internazionale che sostiene la protesta, il cui simbolo sono i salvagenti a forma di papere, accusa anche il governo e gli investitori del Golfo di scarsa trasparenza nel processo decisionale, di nessun coinvolgimento della popolazione e soprattutto di volere una Belgrado a misura di ceto medio-alto.

Il paradosso di questa vicenda è che l'attivismo vagamente no global sembra aver riattivato quel sentimento da vent'anni latente in Serbia, ovvero la «jugonostalgia»: il rimpianto per un'epoca in cui Belgrado contava davvero, capitale di un Paese patchwork che si reggeva sul carisma di Tito, ma che era riuscito a riunire attorno a sé tutti quei Paesi che non si riconoscevano né con il capitalismo all'americana né con il plumbeo comunismo sovietico: erano i cosiddetti Paesi «non allineati», un'alternativa utopica ai due blocchi della Guerra Fredda che per qualche tempo sembrò funzionare. Di sicuro dette un po' di visibilità e ripulì l'immagine del socialismo dal volto umano (o quasi umano) di Josip Broz. La Serbia oltretutto ha vissuto la dissoluzione del Paese della stella rossa come un lento spogliarello di nazioni - la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Macedonia, infine il Montenegro - che per qualche decennio aveva vissuto come proprie province e questo ha intaccato molto l'autostima di un Paese che adesso non sa dove collocarsi nello scacchiere mondiale.

Così Belgrado coltiva con apparente noncuranza l'estetica titina. Lo fa con un tocco ostentatamente kitsch in locali come il «Kafana Sfrj», ricco di cimeli jugoslavi e di turisti stranieri che vanno là per instagrammare il busto di Tito e le foto di militari in divisa. Lo fa nel Museo della Jugoslavia e nella vicina Casa dei Fiori, memoriale funebre del maresciallo, visitato da serbi di provincia ripuliti dagli abiti di campagna. Lo fa nel metafisico sobborgo di Novi Beograd, sull'altra sponda della Sava, quartiere satellite costruito nel secondo dopoguerra in stile modernista sovietico con materiali scadenti. Ci si passa per andare a Zemun, paesino di pescatori sul Danubio che coltiva ostinatamente l'orgoglio di non sentirsi Belgrado e dove si viene a mangiare pesce di acqua dolce a 900 dinari la ricca porzione (circa 7 euro).

Belgrado è una città dal passato pesante, distrutta e ricostruita a ogni curva a gomito della storia. Per questo (anche) è giovane, come noi non siamo più abituati a vederne. Ha ragazze bellissime che girano guardandoti con alterigia, una vivace scena di locali in cui si beve, si suona, si fuma (proprio così: si fuma). Gli osservatori la descrivono come una via di mezzo tra Istanbul, Berlino e Praga, la Lonely Planet la racconta come «una delle dieci città più divertenti del mondo». Il quartiere di Skandalija con le stradine acciottolate se la tira come una Montmartre balcanica.

La via Cetinjska è molto amata dai giovani, con un cortile che di giorno è un parcheggio e di sera è affollato di ragazzi che bevono rakjia (una grappa locale) e birra economica e parlano del futuro, loro che ne hanno uno, anche se in serbo e con i soldi degli emiri.

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