Politica

La bersagliera mutilata al fronte: «Voglio tornare in Afghanistan»

di Gian Micalessin

«Dai mettiamoci al sole fammi un po’ abbronzare, il posto sceglilo tu che tanto io la sediolina già ce l’ho». Monica Contrafatto sguscia tra i vialetti dell’ospedale militare del Celio come un furetto sorridente, appollaiato su una sedia a rotelle. É pelle ed ossa, ha una tuta vuota, afflosciata sotto il ginocchio destro, una mano ed un polso segnati da un ricamo di carne rabberciata. Il sorriso birichino, la voce squillante, quello sguardo impertinente nascosto sotto la frangetta corvina fanno la differenza. Due mesi e mezzo fa nessuno c’avrebbe scommesso. Quel disgraziato 24 marzo già salvarla è stata un’impresa. I colpi di mortaio caduti dentro la base «Ice» nel cuore dell’Afghanistan le hanno azzannato la gamba, lacerato l’intestino. Accanto a lei c'è il cadavere del sergente Micheli Silvestri. I compagni del primo reggimento Bersaglieri la raccolgono dalla polvere, si fanno il segno della croce, la guardano volar via in elicottero. Si risveglia all’ospedale americano di Ramstein. Intorno c’è ronzio di macchinari, odore di medicinali, ma nel cervello, tra l’ovatta della morfina, batte solo quel chiodo fisso. «Davanti a me sento mamma e papà. Non penso alle ferite, penso a quei due tatuaggi sulla schiena. A mamma non l’ho ancora detto, vuoi vedere - penso - che adesso s’arrabbia. Allora, prima che quei due spiaccichino parola, sussurro “Mamma non arrabbiarti sono viva, ma ne ho fatti due nuovi”». Il caporal maggiore Monica Contrafatto, 31 anni, è fatta così. L’Afghanistan le ha rubato una gamba e disegnato cicatrici profonde, ma non le ha scalfito l’animo, non le ha cancellato il sorriso: «La cosa più difficile è stata infilar la testa sotto il lenzuolo, sbirciare quel che mancava. Ci ho messo un po’, ma alla fine ho alzato le coperte e mi son detta “bene Monica la gamba vecchia non c’è più, ma quella nuova sarà ancora meglio”. Ora ci scherzo sopra. A mia madre dico “sai mi sento perfino più leggera”. A mio padre che m’aiuta ad infilar la scarpa, chiedo sempre “ma l’altra dove l’hai messa?”. Insomma - ride - sono o non sono una ragazza in gamba?».
Poi la mente corre ai giorni da ragazzina tra le strade di Gela. I giorni della guerra alla mafia, dei Vespri Siciliani, dei fez rossi da bersagliere davanti al Municipio. «A quel tempo sogno di far la poliziotta, ma non appena vedo quel cappello rosso con il ciuffettino me ne innamoro: da grande, mi dico, lo porterò anch’io». Nel novembre 2007 il sogno è realtà. La recluta Monica Contrafatto, dimentica l’Università ed entra al primo reggimento bersaglieri di Cosenza. «E ancora oggi non me ne pento, per me mimetica e fez da bersagliere restano il miglior vestito». Lo sguardo cade su quella tuta afflosciata. Lei intuisce. «Se vuoi veramente una cosa nulla è impossibile. É solo un’altra sfida e io la vincerò. Non appena arriva la mia protesi tornerò ad indossare la mimetica, è solo questione di tempo». Le chiedi della guerra, dell’Afghanistan. Sorride. «L’Afghanistan per me resta un posto bellissimo. Durante la prima missione nel 2009 ci ho passato sei mesi e me ne sono innamorata. Per me è il silenzio di spazi sconfinati rotto dalla preghiere del tramonto. É l’immensità della notte con quelle stelle appese al cielo. Son gli occhi stupendi di quei bimbi scatenati sempre pronti a prenderti a sassate. Le cose brutte le ho messe da parte. Quelle belle continuano a riempirmi il cuore». Un cuore che non sa odiare. «Non puoi pensare siano tutti cattivi, devi rispettarli, accettarli. Durante la prima missione guardavo i bambini saltare di gioia per una bottiglietta d’acqua, pensavo a quanto sprechiamo ogni giorno. Mi chiedevo se sarei riuscita a condividere una vita semplice come la loro. Per questo li rispetto e non li odio. Provo più rabbia per qualche italiano». Il ricordo va alla sera prima quando sulla bacheca di Facebook scintilla quel messaggio. «Quanti afghani hai ucciso?». «Guardo chi è. Sulla bacheca ha infilato la foto di un cane. Non ha neppure il coraggio di metterci la faccia. Un sito di suoi amici recita “a morte tutti i militari”. Penso ai miei compagni morti e il sangue mi va al cervello, mi chiedo come possa esserci gente così ignorante. Io e i miei colleghi andiamo in Afghanistan e rischiamo la pelle per far del bene, non certo per uccidere». Il sorriso scompare, la faccia si rabbuia, il ricordo torna alla polvere, alle esplosioni, a quel fragore ovattato nelle orecchie. Al sangue tra la sabbia. «Ci ho lasciato una gamba e lui mi chiede quanti ne ho ammazzati, ma che gente è questa?» Per farla tornare a sorridere basta il ricordo della parata del 2 giugno. «Per qualcuno non si doveva fare, per me è stata una gioia immensa. Quando ho visto passare i miei bersaglieri e mi sono affacciata al balconcino sospesa sulle grucce ho sentito il cuore battermi forte». Le chiedi del futuro e Monica ti regala un altro di quei suoi sorrisi scanzonati. «Il mio futuro sono la mia divisa, i miei bersaglieri, il mio Afghanistan... Credimi ci tornerei subito. La mia vita resta la stessa anche senza un pezzo di me. Attendo solo la protesi, poi tutto tornerà come prima. L’unico desiderio è rimettere la mimetica perché l’esercito è la mia vita. Poi con la gamba nuova potrò anche ripartire per l’Afghanistan. Ho visto le foto dei militari americani con le protesi che tornano in prima linea. Se lo fanno loro lo farò anch’io.

Io sono testarda e fuori da quest’ospedale, c’è ancora tutta una vita che m’attende».

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