Controcultura

Billie Holiday, la Lady che cantava il jazz (e il dolore)

Vita, successi e cadute della più grande interprete nella storia del genere

Billie Holiday, la Lady che cantava il jazz (e il dolore)

Billie Holiday (1915 - 1959), la più grande cantante nella storia del jazz, sosteneva di non avere una bella voce... Ed era vero. Ma con le sue canzoni ha emozionato e continua a emozionare con una carica emotiva che ha dato voce alla sofferenza e alla gioia umana. Diceva sempre, ai musicisti che si esibivano con lei: «Sappiate che questa mia vecchia voce non può salire o scendere più di tanto. È una voce irregolare. Non ho una voce regolare. La mia voce è un casino, chi suona con me deve sapere bene quello che fa». Come spiegare la vita dissoluta e il successo di questa star della musica? Si può partire dal disco The Complete Billie Holiday Songbook, che raccoglie tutte le canzoni da lei scritte (nel secondo cd tali brani sono cantati da altre star femminili del jazz), dall'autobiografia Lady Sings the Blues o dalla definitiva biografia Billie Holiday (John Szwed, Il Saggiatore, pagg. 272, euro 26) uscita in questi giorni.

«Parte della difficoltà nel descrivere la voce della Holiday è dovuta al fatto che lei ne aveva ben più di una», scrive Szwed. Sul registro alto aveva un suono nasale ma pulito; sul registro medio la voce era nitida; su quello basso i toni erano ruvidi, grintosi, a tratti parevano un ringhio. Billie mise tutta se stessa in quelle interpretazioni e il suo motto era: come posso collegare questa canzone alla mia vita? Anche i brani che Billie non componeva diventavano suoi, valga per tutti quel drammatico Strange Fruit (storia di un linciaggio) che ha contribuito notevolmente allo sviluppo degli artisti neri sul mercato discografico. Milt Gabler le fece incidere Strange Fruit per la Commodore, una grande casa discografica a diffusione nazionale, dimostrando che si potevano sposare qualità e successo anche negli artisti neri e che soprattutto la musica nera non era solo il blues che veniva dai campi di cotone.

Billie Holiday ebbe una vita tragica - dominata dall'alcol, dall'eroina e dai frequenti arresti - molti anni prima di Jim Morrison, Jimi Hendrix e tante altre star del pop. «La sua capacità di cantare emozioni forti e dolorose - scrive Szwed - tramite il canto portò molti a credere che stesse vivendo un disagio e che stesse soffrendo». Certo, Billie ha sofferto, e ha anche provato dolore, ma la cosa più importante è che sapeva comunicarlo con brani come Billie's Blues o Falling in Love Again, in cui è interessante il confronto con la versione di Marlene Dietrich. «Quando ti capita una melodia con dentro qualche cosa - diceva Billie - non c'è affatto bisogno di seguire tanti stili, lo senti e basta, e mentre tu la canti anche gli altri sentono qualcosa. Con me non serve star tanto lì a rimuginare, a far prove su prove e arrangiamenti: se una canzone mi tocca da vicino, di lavoro non c'è mai bisogno. Vi sono poi altre cose che mi danno una grande emozione, che però non sopporto di cantare. Ma questa è un'altra faccenda».

Emergono qui il pudore e la sofferenza di Billie Holiday, la star che diceva di essere «letteralmente inciampata nel mestiere di cantante». Aveva cominciato a 15 anni con un'audizione in un cabaret come ballerina, per pagare l'affitto alla madre. Fu bocciata, ma invitata a cantare, e da lì tutto cominciò... Quando cantava nei night club di Harlem, ad ascoltarla c'erano Bob Hope, Ava Gardner, Clark Gable, Leonard Bernstein che spesso uscivano con lei a fare festa. Fece clamore la sua relazione con Orson Welles a Los Angeles, lei nera, lui bianco, lei appena sposata con Jimmie Monroe, lui fidanzato con Dolores Del Rio. Se la carriera era costellata di crescenti successi, la vita privata di Billie Holiday era fatta di alti e bassi. Un esempio? Nell'estate 1948 Billie era appena uscita di galera dopo aver scontato nove mesi per possesso di stupefacenti e le era stata ritirata la cabaret card, il che le impediva di lavorare. Fu però scritturata dallo Strand Theatre, in cartellone con l'orchestra di Count Basie e il film Key Largo (L'isola dei coralli). Una vita d'inferno con cinque esibizioni al giorno (sette giorni su sette) da quaranta minuti l'una, ma in compenso guadagnava quasi 4mila dollari a settimana.

Non erano molti gli artisti in grado di far piangere il pubblico. Billy Eckstine quando cantava Sophisticated Lady di Duke Ellington e poi Billie (il proprietario dell'Apollo Theater raccontava di ragazze giovani che piangevano copiosamente ogni volta che lei saliva sul palco). Eppure la Holiday sosteneva di non essere una brava cantante. «Billie solitamente usava il vibrato per aumentare il carico emotivo di una frase, e forse, più spesso per conferire, come faceva Louis Armstrong, un impulso swing a una nota». Nel 1956 il giornalista Mike Wallace le chiese perché ammirasse così tanto artiste come Tallulah Bankhead e Ethel Barrymore. «Perché sono attrici, artiste - fu la risposta - le guardo e resto a bocca aperta». E non si reputa anche lei un'artista?, le chiese Wallace. «No, mio Dio, no!». Perché no? «Forse nel mio piccolo lo sono anch'io, ma loro mi fanno piangere, mi rendono felice. Non so se sono mai riuscita ad avere un impatto simile sulle persone, credo proprio di no». Quanto si sbagliava..

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