Cultura e Spettacoli

"Mi piace scoprire il talento perché io non ce l'ho"

Claudio Cecchetto ha lanciato Jovanotti, Fiorello, Volo La sua fortuna fu Mike Bongiorno che un giorno gli disse: «Ti ho sentito stamattina alla radio». Ma lui andava in onda al pomeriggio...

"Mi piace scoprire il talento perché io non ce l'ho"

Scopritore di talenti dello spettacolo, apripista di successo nelle radio private, pioniere con Deelay Television dei programmi di videoclip musicali. Eppure Claudio Cecchetto, veneto naturalizzato a Milano, è ricordato dai più per «Gioca jouer», il suo celebre tormentone che fu sigla del Festival di Sanremo anno 1981 e che, dopo quasi 35 anni, viene ancora proposto dagli animatori dei villaggi turistici e dalle maestre durante le feste del bambini. A quel vincente gioco di parole, il più famoso disc jockey italiano ha intitolato anche la sua autobiografia, «In diretta, il gioca jouer della mia vita» edita da Baldini e Castoldi. «L'importante - dice - è ciò che rimane nella memoria, e un uomo viene ricordato più per ciò che ha fatto che per ciò che è stato».

La svolta è arrivata proprio da Sanremo con la sigla «Gioca Jouer»...

«Devo ammettere che è stato un bel colpo fare ascoltare la canzone a 60 milioni di telespettatori. Dopo la prima serata di Festival il 45 giri era andato già esaurito. Senza contare che ho coronato il sogno di tutti i dj, quello di incidere un disco di successo».

Già, per una volta è stato il talent scout di se stesso. Come nacque l'idea?

«La scintilla si è accesa nel periodo in cui conducevo Scacco Matto , varietà del sabato sera di Raiuno abbinato alla Lotteria di Capodanno. Facevamo le prove di un balletto e io, che non sapevo ballare ma mi divertivo un mondo, mi dissi: perché non mettermi dalla parte del coreografo?».

Detto fatto.

«Ci ho lavorato un mese intero, cercavo battute che fossero popolari ma fluide mentre a Claudio Simonetti, a cui commissionai la musica, chiedevo un motivetto pop in stile Status Quo. Fece subito centro, e quando la ascoltò Gianni Ravera, che non aveva ancora una sigla per Sanremo, la adottò subito».

Fu la prima e ultima volta.

«Certo, perché “Gioca Jouer” non voleva essere una canzone, ma un gioco sulla canzone. E io sono sempre stato stonato».

Adesso invece cantano ovunque, la tv è tutta un talent show...

«E sarà sempre più così. Il varietà televisivo sparirà e ci saranno soltanto talent su tutto lo scibile. Lo diceva anche Andy Warhol: ognuno ha diritto al proprio quarto d'ora di celebrità. Senza i talent la musica in tv sarebbe già morta e sepolta».

Altro che Sanremo, ormai siamo alla fabbrica degli artisti.

«No, perché il talent è un punto di partenza e non di arrivo. Vinci la bicicletta ma poi devi dimostrare di saper pedalare. Una volta era sufficiente cantare bene mentre oggi sono tutti intonatissimi, e per sfondare bisogna inventarsi personaggi. La rete, del resto, è diventata la vera nave scuola e ha accorciato i tempi di formazione. La legge dei talent tv è quella dei risultati immediati, mentre a Sanremo i talenti sono già sul palco».

Peccato che dopo anni di programmi, di talenti veri se ne siano affermati ben pochi. Niente a che vedere con quelli che ha lanciato lei: Jovanotti, Fiorello, Gerry Scotti, Max Pezzali, Fabio Volo.

«Il talent scout è diverso dal talent show, perché nel secondo caso decide il pubblico, nel primo sta a te credere nel valore di un artista, seguirne la crescita e spingerlo nell'olimpo».

Jovanotti è stato il suo capolavoro, come l'ha scoperto?

«Beh, l'incontro ha del paradossale. Era l'inizio degli anni '80 e promuovevo una band per Disco Verde , un premio speciale anticamera del Festivalbar . Il gruppo si chiamava Two-Two e doveva sfidare in uno scontro diretto un ragazzotto romano, Lorenzo Cherubini appunto. Seppi che avevamo vinto la sfida, ma quando vidi i filmati non ebbi alcun dubbio: era lui che meritava di vincere... Volli incontrarlo e, poiché allora avevo l'etichetta discografica Ibiza Record, gli proposi subito un contratto. Lui era già vincolato con un'altra casa, ma feci un'offerta che non poterono rifiutare».

Che cosa la colpi maggiormente di Jovanotti?

«Era dirompente e assolutamente naturale; insomma, una mosca bianca rispetto a quegli anni in cui i cantanti salivano sul palco molto impostati. Lo lanciai subito su Deejay Television di cui ero produttore, ero sicurissimo del suo successo».

E con Fiorello come andò invece?

«Me lo presentò proprio uno dei fratelli di Lorenzo che lavorava in un villaggio turistico. Voleva venire a tutti i costi in radio, non perché avesse cose da proporre ma, come seppi dopo, per conoscere belle ragazze. Era strabordante di energia al limite dell'invadenza. Un autentico casinista».

Che avvenne?

«Uscimmo tutti una sera al ristorante e lui non stava mai zitto. A un certo punto lo vidi confabulare col pianista, salì sulla pedana e iniziò uno show di imitazioni e cover in stile Sinatra. La gente apprezzava. Quando tornò al tavolo attese un mio giudizio e io risposi: “Se fai le cose che hai fatto stasera, con me non lavori...”. Ma subito mi corressi: “Sei troppo forte, adesso però devi smetterla di imitare gli altri e diventare un vero showman”. Devo dire che mi ha ascoltato».

E a lei chi la scoprì?

«Fu Mike Bongiorno, che ai tempi era direttore artistico di TeleMilano 58, la rete locale di Berlusconi da cui sarebbe nata Canale 5. Cercavano un conduttore per fare un programma musicale e io allora ero dj a Radio 105. Stavo andando in onda quando entrò un collega dicendomi: è arrivato Mike Bongiorno per te. Io risposi: e il Papa no? Pensavo a uno scherzo e invece era vero. Entrò Mike e, con la sua inconfondibile parlata piena di eh... eh..., mi disse che mi apprezzava moltissimo perché mi aveva ascoltato in radio al mattino. Io in realtà trasmettevo nel pomeriggio ma mi guardai bene dal dirglielo».

Non glielo rivelò neppure dopo, quando con lui condusse Sanremo?

«Sì, una volta glielo dissi e lui mi rispose: “Eh, però, vedi che non avevo mica sbagliato...”».

A proposito di memoria, lei è stato nella giuria del Festival dl Sanremo, una sorta di mausoleo nell'era di Internet, della crisi del disco e del nuovi talent show...

«Mah, io lascerei decidere al pubblico ciò che è obsoleto e ciò che non lo è. Se non vado errato parliamo di 12 milioni di ascoltatori nella serata finale. Certo, non sono i numeri dei miei Sanremo del primi anni Ottanta, quando gli spettatori erano circa il doppio. Ma allora l'offerta televisiva era ben più scarsa e il festival serviva soprattutto a vendere i dischi. Adesso invece...».

Adesso che le case discografiche cantano il de profundis, vince il migliore?

«A Sanremo vince chi in quell'edizione ha saputo regalare le emozioni più forti, e in fondo è sempre stato così anche quando si parlava di complotti e accordi tra le case discografiche. E infatti anche negli anni Ottanta i vincitori erano coloro che poi, guardacaso, vendevano milioni di dischi. Toto Cutugno, Anna Oxa, Gianni Morandi, Riccardo Cocciante, eccetera eccetera».

Insomma, il vincitore è stato sempre una sorpresa?

«Non è questo il punto. Dirò anzi che un buon organizzatore di festival il vincitore dovrebbe avercelo già in tasca. Significa avere un personaggio forte, una canzone forte e un management altrettanto forte. Così poi, quando arriverà il successo di mercato, si potrà dire: avete visto che a Sanremo vincono solo quelli bravi? Comunque il Festival è come la politica: puoi vincere con il 30 per cento dei consensi sapendo che il restante 70 non ti ha scelto».

Nei suoi progetti attuali c'è anche un talent televisivo, «Star Cube», che dovrebbe essere l'«anti-The Voice».

«È sul tavolo di tutti i direttori di rete: ho in mente un talent che cerchi l'attitudine artistica più che la voce: ormai, così come i giovani sono tutti belli, sanno anche tutti cantare. Il talent sarebbe esattamente il contrario di The Volce : prima ti guardo sul palco e poi decido se voglio sentirti cantare».

Televisione, radio, web, musica: che cosa sceglie?

«Tutto, sono irresistibilmente attratto da tutti i media e la mia attività è assolutamente multitasking. Ho un progetto che si chiama Memoring ed è un registratore di Internet per catturare contenuti destinati a sparire. Un esempio? Ho memorizzato negli ultimi sette anni le prime pagine web dei giornali di tutto il mondo. Un archivio unico e immenso che può permetterci revival delle news proprio come nella musica e regalarci ancora delle emozioni. Chi si ricorda cos'è accaduto oggi dieci anni fa?».

Continua a fare il talent scout?

«Sempre, amo concentrarmi sul talento degli altri, forse perché penso che abbiano più talento di me.

Un po' come quei giornalisti che parlano delle vite degli altri anche perché trovano poco interessante la propria».

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