Cultura e Spettacoli

BORIS VIAN Il contestatore atipico

Il geniale autore francese fu sempre in anticipo sui tempi e divenne un personaggio di culto per un’intera generazione

«Signor Presidente/ \/ non per farvi adirare/ ma è bene che vi dica:/ La decisione è presa,/ io voglio disertare./ \ Mendicherò la vita/ per le strade di Francia/ e dirò alla gente:/ Rifiutate di obbedire/ Rifiutate di farla,/ non andate alla guerra,/ rifiutate di partire»: sono le parole famose del Disertore, una delle canzoni scritte da Boris Vian e da lui stesso cantate, o da altri interpreti, come Serge Reggiani. Parole che gli valsero naturalmente, all’epoca, fischi e denunce, urla di «In Russia! In Russia!» in alcuni teatri - e pensare che di qui a qualche anno (siamo nel 1954) Vian sarebbe diventato un autore, e un personaggio, di culto per la generazione protestataria e non solo.
In lieve ma fondamentale anticipo su tutto, il geniale, versatilissimo autore francese; il che gli ha impedito di varcare, almeno da vivo, le soglie del successo, ovvero del giusto apprezzamento da parte dei più (i pochi, Queneau, Paulhan, lo stesso da lui bistrattato Sartre, il Jean-Sol Partre della Schiuma dei giorni, non avevano dubbi sul suo valore). Del resto anche la morte è giunta presto, nel 1959, prima dei quarant’anni: morte annunciata per il malato di cuore; che così ha vissuto con il piede fisso sull’acceleratore, come su quelle belle macchine che gli piacevano tanto.
Scrittore di romanzi e di teatro, autore di canzoni, cantante e attore, trombettista jazz e critico in testate le più varie, da Les Temps Modernes di Sartre a Jazz Hot (da lui ribattezzata Jazote), dove scrive pezzi audaci e trascinanti, fatti del suo amore per il jazz, che molto contribuì a far conoscere a Parigi (anima, tra l’altro, di caves come Le Tabou o il Club Saint-Germain, dove vennero a suonare suoi amici di nome Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis), e del suo amore per la lingua, per le parole, che deforma, stiracchia, stravolge in un modo tutto suo - facendo la disperazione dei traduttori, i quali sovente non trovano di meglio che lardellare la pagina con una caterva di note esplicative.
L'écume des jours è proposto adesso in Italia da Marcos y Marcos (La schiuma dei giorni, traduzione di Gianni Turchetta, pagg. 268, euro 13,50). Nella Schiuma dei giorni compaiono, variamente trasfigurate e metaforizzate, le tematiche fondanti di questa natura di straordinario ribelle, eversore della propria e delle altrui coscienze; tanto che una delle definizioni del romanzo può essere a buon diritto quella data da Daniel Pennac nell’intervista che chiude l’edizione odierna: «un atipico diario personale». E un’altra, altrettanto corretta, quella di Queneau, che lo aveva definito «il più straziante dei romanzi d’amore contemporanei».
Il libro è molte cose, e ad ogni rilettura ne risulta con maggiore evidenza uno degli aspetti. È costruito come una favola; non necessariamente surrealista in senso moderno perché il surrealismo è componente prima delle favole di ogni tempo. E Vian, tutt’altro che parvenu della cultura, si serve di situazioni e personaggi antichi come l’universo ma ripresentati in modo vivissimo, smagliante, per dire ciò che vuole dire, per squadernare sotto il naso del lettore il libro dell’esistenza così come lui la intende. L’ambiente è un indefinito «altrove», e la fantasiosa moneta ivi corrente, il doublezon (tradotto dobloncione), contribuisce a renderlo ancor più tale. Vi troviamo l’animale-aiutante, il «topo grigio dai baffi neri» che è l’angelo custode dei protagonisti; e una sorta di animismo vige dall’inizio alla fine, gli oggetti non dissimulano la loro vita segreta, i vetri rotti ricrescono, le nuvole seguono gli amanti e li avvolgono dei loro profumi; i raggi del sole, immensa piovra, frugano il mondo e se ne ritraggono in fretta, se sfiorati appena dall’ombra. Vi sono passaggi che prefigurano certe invenzioni dell’odierno film di fantascienza (del romanzo fantascientifico e del thriller americano Vian era patito, e traduttore), e creature bizzarre e attualissime come il «coniglio modificato» rigurgitante pillole nell’antro del «vecchio mercante», che ha tanto dell’alchimista quanto del clinico manipolatore di geni. E c’è il viaggio iniziatico, attraverso strade impervie e fangose, in un paesaggio allucinato, e il ritorno con una malattia mortale.
A dire il vero non v’è pagina che non rimandi a qualcosa del nostro immaginario; dal melodramma in cui la protagonista, malata di petto, l’innamorato povero in canna non può salvare; agli scenari di cartone di certa filmografia d’autore americana (suggestione favorita anche dall’assoluta mancanza di psicologia dei personaggi, che sono tutti nelle loro azioni); dal delirio barocco dell’ultima fantascienza alla triste visione di un futuro in cui si è privati della libertà, controllati da un eterno, vigile Occhio.
Così, leggendo in particolare questo libro, ci si rende conto che Vian è padre di tante cose: sono semi fruttuosi il suo anticonformismo, la violenta critica della società, intellettuale e capitalistica (lo sberleffo nei confronti del dio denaro, a cominciare dal nome che gli dà), il deciso atteggiamento antibellico: tra i tanti lavori tentati dal personaggio Colin, quello del «covatore» di canne di fucili, che crescono dalla terra grazie al calore del suo corpo; e cosa vi ricorda il fiore che spunta invece dalla canna, visto che il Colin-Vian non è all’altezza del compito?
La schiuma dei giorni è un romanzo di luce: iridata nella macchina degli sposi Colin e Chloé, fluviale nella loro casa sui tetti, a poco a poco dilava e smuore seguendo l’aggravarsi della malattia di lei (una poetica ninfea le divora i polmoni: e anche la malattia vista come fiore malvagio rimanda a tanta letteratura), trasformando la loro stanza in un’anticamera della tomba. Chloé - e Vian - moriranno per mancanza di luce, le loro finestre a poco a poco si salderanno, e per sempre: «Il suo cuore batteva forte, come stretto in un guscio troppo duro». (Ossessionato dall’immagine del cuore, Vian scriverà di qui a poco L'arrache-cœur, Lo strappa-cuore, strumento che già qui compare). Chloé avrà un funerale dei poveri, con portatori sghignazzanti e una bara a prestito (Vian, tra un decennio, sarà calato nella fossa dagli amici, a Ville-d’Avray, perché in quel bel giorno di prima estate i becchini erano in sciopero): finale tragico, nella perfetta tradizione della storia di amore e morte. Ma quello che nell’opera ricorderemo è la luce, appunto, il mondo inondato dai suoi colori, i due soli che entrano dalle finestre di Colin-Vian; la sua furiosa ansia di vita, la passione per le donne (no, per l’amore), la musica e un buon bicchiere (Je bois è un’altra sua nota canzone, che ha fatto inalberare i buoni borghesi benpensanti).

«I topi della cucina, cui piaceva molto ballare al ritmo dei colpi che i raggi di sole battevano sui rubinetti, correvano dietro alle bollicine formate dai raggi che si andavano a spegnere per terra, come spruzzi di mercurio giallo».

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