Politica

Boss in manette, cittadini in lutto

Michele Zagaria, detto «capa storta» (testa storta) è stato arrestato ieri nel suo bunker a Casapesenna. L’uomo era ricercato da sedici anni: con tre ergastoli sul groppone era stato inserito fra i trenta latitanti più pericolosi d’Italia. La cella in cui è stato rinchiuso non ha nulla da spartire col suo rifugio segreto: niente spreco di cemento armato e niente supertecnologia che consentiva al latitante, con una complessa rete di telecamere, di seguire tutto quello che accadeva sopra e intorno. C’era anche un sistema di binari che consentiva al latitante di lusso di passare in una stanza della villetta soprastante, appartenente naturalmente a un altro camorrista fidato.
Zagaria si era guadagnato questi lussi essendo fra i vertici del clan dei Casalesi. In particolare si occupava delle attività imprenditoriali in tutta Italia ed era noto come il «re del cemento», perché non c’era appalto pubblico nel quale non si insinuasse come fornitore della materia prima.
Il suo arresto è stato salutato dai rappresentanti delle istituzioni come un colpo di cannone che finalmente ha rotto il silenzio mortifero in cui la camorra prosperava.
Le istituzioni, dicevamo. Per la gente comune di Casapesenna non è stato così. Qualche cittadino ha espresso con cautela e lontano da orecchie indiscrete la sua soddisfazione, ma tanti, troppi, hanno manifestato smarrimento e dolore.
«Oggi è una giornata di lutto» ha detto qualcuno, altri sono apparsi sconcertati e impauriti come se l’ordine del loro territorio fosse stato improvvisamente turbato da un evento catastrofico.
Non sono mancati gli insulti ai poliziotti e ai giornalisti.
Uno del paese ha esclamato: «Per noi Zagaria c’era sempre, c’era se ci servivano soldi, lavoro. Ora siamo soli».
Una vecchietta, scorgendo Zagaria sull’auto della polizia, gli ha gridato «Michè, a Maronna t’accumpagni»: l’antico grido augurale che si usava per i partenti.
Troppi orfani della camorra insomma, tutti legati alla concezione arcaica delle organizzazioni mafiose come protettrici del popolo ed erogatrici di benessere.
Tutte leggende nere, naturalmente, le mafie producono miseria e sfruttamento, ma chi ne è vittima spesso non lo comprende.
C’è stato anche chi ha accennato al problema della sicurezza: fino a quando Zagaria si godeva la sua comoda latitanza parecchi erano convinti che l’ordine regnasse a Casapesenna: adesso che succederà? si chiedono.
Ci si domanda come mai una distorsione simile sia possibile. La risposta è complessa. Cominciamo da qualche cifra. Qualche anno fa in Campania si fece una sorta di censimento e si concluse che in tutta la regione erano circa sedicimila gli affiliati ai vari clan. Se a questi sedicimila sommiamo coniugi, figli in grado di maneggiare la pistola, cugini, compari e cumparielli, si ottiene una cifra veramente considerevole e si comprende che la camorra è anche un blocco sociale di gente che vive di malaffare, magari accontentandosi delle briciole, perché i bocconi più grossi toccano sempre ai boss.
Ma non è tutto. Nel Mezzogiorno, dove le mafie sono radicate, accanto ai clan, alle cosche, alle ’ndrine c’è sempre un alone grigio di fiancheggiatori occulti (professionisti, imprenditori, amministratori e burocrati) che, per paura o denaro, si schierano con l’anti-Stato. Anche questi vivono di rendite parassitarie basate su violenza e corruzione.

Non hanno i bunker, eppure non sarà facile stanarli.

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