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"Bossi prometteva bene anche come medico", racconta il suo maestro

Aris Zonta: "Al sesto anno d’università venne a chiedere la laurea sperimentale, la più difficile. E mi aiutò a costruire l’ossigenatore che permise il primo autotrapianto di fegato"

"Bossi prometteva bene anche come medico", racconta il suo maestro

Il Laboratorio di chirurgia sperimentale di Pavia, dove Umberto Bossi stava per laurearsi in medicina, adesso è abitato dai topi. Si trova nell’Istituto di patologia generale intitolato a Camillo Golgi, il primo italiano, insieme con Giosue Carducci, a vincere il premio Nobel nel 1906: sulla lunetta all’ingresso si legge ancora il nome dello scienziato. Per visitarlo bisogna inabissarsi negli scantinati dell’antico Palazzo Botta, fra tavoli anatomici arrugginiti e sedie in similpelle sventrate da cui protrudono visceri di gommapiuma gialla. «Ecco, questo era l’ossigenatore per gli organi isolati», fa da cicerone il professor Aris Zonta con rassegnata mestizia. «Visto che macchinario? Se ne occupava l’attuale ministro delle Riforme. Qui dentro ci sono 26 anni di ricerche. Tutto sprecato, buttato al vento». Le dimensioni sono quelle di una Tac. Ma descriverlo è impossibile. Quando, magari fra un secolo, qualcuno vorrà rendere l’idea di quale fosse la percezione del futuro sul finire del Novecento, dovrà scendere quaggiù a fotografare questo intrico di elettrovalvole, cannule e stantuffi avvolto nel cellofan e coperto di polvere.
«Bossi choc, dalla A alla Lega la vera storia di un finto medico», ha titolato qualche settimana fa Oggi, pubblicando stralci di un libro sul «leader nordista visto da vicino». Ma il vero choc è scoprire, dalla testimonianza del docente che doveva conferire la laurea al futuro ministro, che se l’ossigenatore poté essere messo in funzione, se al Policlinico San Matteo fu eseguito il primo autotrapianto al mondo nel quale donatore e ricevente erano la stessa persona, se furono regalati altri quattro anni di vita a un malato terminale con un cancro al fegato, se insomma fu scritta una nuova pagina nella storia della medicina, un po’ del merito va ascritto proprio al Senatùr. Il quale collaborò attivamente con Zonta nella messa a punto di un’avveniristica forma di radioterapia, la Bnct (Boron neutron capture therapy), che impiega i neutroni al posto dei raggi gamma e ha il grande vantaggio di distruggere solo le cellule tumorali, senza intaccare le cellule sane adiacenti.
Il professor Zonta non saprebbe dire per quale motivo la sua invenzione sia stata abbandonata in cantina e, anche se lo sapesse, non lo direbbe: troppo signore. Per giustificare la sospensione della sperimentazione clinica parla genericamente di «motivi nobili e meno nobili». Fra i motivi nobili, lui per primo riconosce che la Bnct non s’è rivelata la soluzione definitiva per il male del secolo, «ma se noi curassimo il cancro solo con le terapie che ci danno la certezza di vittoria al 100 per cento», aggiunge, «dovremmo avere il coraggio di sospendere anche la chemioterapia». Fra i motivi meno nobili, il cronista può ipotizzare di tutto: dalla gelosia professionale alla banale constatazione che la Bnct «manteneva» soltanto l’équipe chiamata a praticarla, tagliando fuori completamente l’industria farmaceutica che produce i costosissimi antineoplastici.
Il ministro Bossi è fra i pochi a non essersi dimenticato di questo cattedratico di 77 anni che in oltre mezzo secolo di attività ha eseguito 30.000 interventi soprattutto al fegato e al pancreas, è stato a lungo docente all’Università di Pavia, ha diretto per un ventennio il dipartimento di chirurgia e oggi, benché in pensione, continua a operare nella clinica Maugeri e a insegnare bioetica all’Istituto universitario di scienze superiori. Nel gennaio 2009, quando intervenne col presidente Giorgio Napolitano all’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo pavese, Bossi chiese d’essere portato nei sotterranei del padiglione Golgi per rivedere il «suo» ossigenatore. E poche settimane fa, durante la rituale cena prenatalizia a base di polenta e bruscitt nel centro polivalente di Gemonio, ha tessuto per 40 minuti buoni le lodi dello schivo luminare. «Un grande chirurgo, dovete tutti imparare da lui», ha detto il Senatùr ai suoi fedelissimi.
Un pioniere del bisturi, il dalmata Zonta, nato a Fiume e arrivato a Pavia nel settembre 1946, con i soli abiti che aveva addosso, al seguito del padre Iginio, funzionario dell’Inam in fuga con la famiglia dal regime jugoslavo. Nel 1959, da aiuto neurochirurgo all’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, si applicava alla psicochirurgia. «È una disciplina oggi scomparsa. Inglesi e americani avevano osservato che i malati mentali afflitti da psicosi acute, deliranti e violente miglioravano nettamente dopo un incidente stradale, come se il trauma avesse lo stesso effetto del pugno dato su una radio che non funziona. E così il professor Amarro Fiamberti, direttore del manicomio di Varese, introdusse in Italia la leucotomia, il taglio della sostanza bianca cerebrale. Un intervento meno invasivo della lobotomia. Il paziente tornava ad avere una vita di relazione, come se l’avessimo sottratto al dominio ossessivo di una porzione del suo cervello che prevaleva su tutte le altre».
Perché ha fatto il medico?
«Avrebbe voluto farlo mio padre. Cominciò come funzionario della Mutua di Fiume, ma ebbe sei figli e non riuscì a laurearsi. Trasmise la passione per la medicina a me e a mia sorella Flavia, che è geriatra».
La medicina è una scienza?
«Sì e no. Il buon medico deve armarsi di profonda umiltà e far proprie le ansie del malato. Questo legame d’amore è l’unica via per guarirlo. Perché fra amore e conoscenza c’è un nesso indissolubile, come ben scrisse Sant’Agostino: “Nessun bene può essere conosciuto perfettamente se non lo si ama perfettamente”. Ricordo il primo consiglio che il nostro caposcuola, il professor Giuseppe Salvatori Donati, dava a noi giovani allievi: “Ascoltate il malato! Egli sa che cosa ha e cerca di dirvelo in tutti i modi”. Spesso è il paziente stesso a suggerirti diagnosi e terapia».
Ha avuto una buona scuola.
«Donati applicava questo principio persino in sala operatoria. Una volta, mentre stavamo operando un uomo colpito da una lesione al testicolo, riscontrammo una discordanza fra ciò che vedevamo dopo l’incisione chirurgica e ciò che avremmo dovuto trovare. “Che diceva il paziente?”, chiese il professore. Che il testicolo era completamente insensibile, gli rispondemmo. “Allora asportiamo”, concluse. Non sbagliava: l’esame istologico confermò che si trattava di un tumore».
Quando si presentò da lei per la prima volta lo studente Bossi?
«Nel 1976. Era già al sesto anno di medicina. Venne a chiedermi di poter fare la tesi di laurea sperimentale. La più impegnativa. Siccome dimostrava prontezza d’ingegno e buona volontà, lo presi con me. Cominciò a frequentare la patologia chirurgica a Palazzo Botta, dove avevo avviato da un anno un laboratorio di chirurgia sperimentale. All’inizio eravamo alloggiati in soffitta. Bossi aveva una forza fisica spaventosa, era capace di trasportare da solo una grossa bombola d’ossigeno su e giù per le scale caricandosela sulle spalle».
Che facevate in quel laboratorio?
«Tazio Pinelli, docente di fisica teorica, mi aveva prospettato la possibilità di curare un organo colpito da tumore irradiandolo dopo averlo tolto dal corpo umano, quindi senza danneggiare altri organi. In Italia c’erano solo due reattori in grado di poterlo fare: uno nel centro di ricerche dell’Enea alla Casaccia, vicino a Roma, e l’altro a Pavia. “Te la senti?”, mi chiese Pinelli. Ci riflettei per una settimana e alla fine decisi che si poteva tentare col fegato».
Perché proprio il fegato?
«Perché, fra tutti gli organi trapiantabili, è il più sfortunato, per così dire. Intanto è uno solo, mentre reni e polmoni sono due. Quando si danneggia, non ti restano vie di scampo: è la centrale chimica di tutto l’organismo e soprattutto della coagulazione; senza la funzione epatica, il sangue diventa incoagulabile, come l’acqua. Poi, a differenza del cuore, è aggredito spesso dalle neoplasie. Avrei potuto agire anche sul pancreas, ma quello si asporta in toto con relativa tranquillità, perché la sua unica funzione vitale è produrre l’insulina che si assume anche per iniezione».
E in tutto questo Bossi che c’entrava?
«Il mio problema era come mantenere il fegato vivo per un certo numero di ore fuori dal corpo umano, senza che si rovinasse. Io non so se Bossi prima d’iscriversi a medicina si fosse diplomato perito elettronico per corrispondenza alla Scuola Radio Elettra, come hanno scritto. Fatto sta che dimostrò una competenza eccezionale nel gestire l’ossigenatore che impediva all’organo asportato di degradarsi. In particolare si applicò a realizzare un sistema di automatismi che governava ben 18 pompe, capaci di perfondere il fegato esattamente come se fosse ancora all’interno dell’organismo. Dietro vi erano calcoli molti complessi. Siccome Bossi è sempre stato un guascone, ribattezzò “Bonocounter” questo contatore, in onore di Alberto Bonoldi, un medico neolaureato che lavorava con noi e che oggi è nello staff gestionale del San Matteo. Per gli esperimenti usavamo fegati e sangue di maiali, che Bonoldi e Bossi andavano personalmente a prelevare alle 5 del mattino nei macelli del Pavese al fine di garantirne l’assoluta sterilità. Sfruttando la procedura dell’autotrapianto epatico, avremmo potuto estrarre il fegato malato dal paziente, portarlo nel reattore nucleare di Pavia per irradiarlo con i neutroni e poi reinserirlo nel paziente. Prima però vi fu un tentativo intermedio».
Su chi?
«Su una donna di 45 anni che aveva un tumore al fegato più grande di un pallone da football. Era il 1991. Fu un intervento pesante: 19 ore filate. Togliemmo il fegato, lo mettemmo sul banco operatorio, lo ripulimmo e lo reimpiantammo. La signora è ancora viva. Da allora eseguimmo in tutto nove autotrapianti di fegato».
E il primo autotrapianto con irradiamento quando avvenne?
«Dieci anni dopo. Il paziente era un quarantottenne di Napoli, Pasquale Toso. Gli devo molto. Non potrò mai dimenticare quello che mi disse prima d’entrare in sala operatoria: “Professore, io non so come andrà a finire. Ma voglio farlo per i malati futuri”. Le stesse parole che pronunciò il secondo malato di 39 anni, anche lui un napoletano. Ho un debito con queste due persone, e io i debiti li pago». (Ha gli occhi arrossati).
Come andò l’intervento su Toso?
«Bene. Il suo fegato fu irradiato per 11 minuti. Dissi ai fisici: ve lo darò nudo e crudo, fate in modo di restituirmelo crudo e nudo. Infatti il rischio era che i neutroni potessero cuocerlo. Furono bravi: lo mantennero fra i 4 e i 10 gradi. Il paziente aveva un tumore metastatizzato, sarebbe morto nel giro di un mese. Invece visse per altri quattro anni. Poté sposarsi e avere un figlio. M’invitò al suo matrimonio, al Maschio Angioino».
E il secondo operato?
«Purtroppo morì dopo 33 giorni. Era cardiopatico, il quadro clinico appariva molto compromesso. Ma soprattutto, come nel caso di Toso, fu aggredito da una sindrome post irraggiamento che avevo messo in conto, dovuta al rilascio dei mediatori chimici da parte delle cellule morte. In altre parole, i neutroni uccidono sì il tumore, ma la lisi che ne consegue provoca blocco renale e ottundimento mentale. È come se il corpo venisse intasato dagli scarti della neoplasia che è stata disintegrata. Ma sul fatto che la strada fosse quella giusta non ho mai nutrito dubbi».
Come fa a sostenerlo?
«Questo secondo malato volle mettermi a disposizione il suo corpo anche per l’autopsia. Le cellule tumorali che avevano aggredito il fegato erano completamente necrotizzate, simili a fiocchi di cotone, inoffensive».
Ma allora Toso di che morì?
«Di un secondo tumore. Perciò sono giunto a una conclusione: il cancro rispetta la strategia generale della vita. Così come l’organismo accantona cellule staminali rigeneranti che gli permettono di riparare eventuali danni, vi sono cellule staminali neoplastiche che vengono immagazzinate e si riattivano dopo che il tumore è stato rimosso».
Bossi partecipò alla sperimentazione dal vivo?
«No, dopo sei mesi scoprì la politica e buttò via il suo progetto di laurea. Si congedò con questa frase: “Solleverò la bandiera del Nord, ci riprenderemo le fabbriche costruite col sangue dei nostri padri”. Aveva le idee molto chiare già allora».
Ma lei lo considera una perdita per la medicina?
«Meglio che abbia fatto il politico. C’è bisogno che qualcuno tenda l’orecchio ai bisogni dei cittadini. Da questo punto di vista bisogna dire che Bossi è sempre stato fedele alla sua gente».
Poteva chiedergli aiuto per riprendere la Bnct.
«Nel 1994, all’epoca del primo governo Berlusconi, si offrì di aiutarmi. Ma non l’ho mai cercato, per non disturbarlo. Io gli do del tu, lui mi dà del lei. L’ho rivisto dopo 15 anni e non ho potuto fare a meno di pensare al debito morale che ho con i miei due pazienti autotrapiantati. Il rettore dell’Università di Pavia, Angiolino Stella, sarebbe favorevole a riprendere gli interventi di autotrapianto epatico. Era una metodica che tutto il mondo ci invidiava, un’eccellenza italiana che è andata perduta. Pensi che in Germania vi sono fior di chirurghi che sarebbero pronti a espiantare un fegato a Essen e a portarlo fino a Pavia per irradiarlo e poi reimpiantarlo».
Quando i politici si ammalano, si comportano come gli altri pazienti o chiedono un trattamento speciale?
(Ride). «Iper speciale. Vogliono che il mondo ruoti intorno a loro».
Anche Bossi?
«A Bossi posso fare solo i complimenti. Era un uomo vigorosissimo e s’è ritrovato invalido dalla sera alla mattina. Ciononostante non l’ho mai sentito non dico lamentarsi per la sua menomazione fisica, ma neppure accennarvi: la sopporta come se l’avesse dalla nascita. Non sarebbe facile per un uomo qualunque, è ancora più difficile per un uomo pubblico. Io ho combattuto tutta la vita contro la malattia altrui, ma per combattere contro la propria serve una forza d’animo sovrumana».
(526. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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