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Le bugie di Scalfaro ai pm sul carcere duro ai boss

L’ex capo dello Stato ha detto ai magistrati di Palermo di non sapere nulla del cambio ai vertici del Dap. Ma un teste lo smentisce: "Fu lui a decidere"

Le bugie di Scalfaro ai pm 
sul carcere duro ai boss

Non è difficile immaginare il presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro davanti ai magistrati venuti da Palermo per interrogarlo, il 15 dicembre scorso, a Palazzo Giustiniani sulla trattativa Stato-mafia. E vederlo mentre con visibile fastidio a domanda risponde: «Nulla so in ordine all’avvicendamento al vertice del Dap (cioè il Dipartimento degli affari penitenziari) tra il dr. Nicolò Amato e il dr. Adalberto Capriotti nel giugno del '93. Nessuno mi mise al corrente delle motivazioni di tale avvicendamento…».

Ecco, c’è una versione che racconta tutta un’altra storia. L’«avvicendamento» di Nicolò Amato, licenziato dalla sera alla mattina dopo 11 anni a capo degli istituti di pena, secondo questa versione, fu decisa proprio dall’allora capo dello Stato che un giorno di maggio '93 convocò al Quirinale l’ispettore generale dei cappellani, monsignor Cesare Curioni, suo grande amico da quando era cappellano al carcere di San Vittore e Scalfaro era un giovane pubblico ministero alle prese con un’altra vicenda oscura, le condanne a morte dei fascisti. Ad accompagnare monsignor Curioni, il suo segretario, monsignor Fabio Fabbri. Questa versione riposa, confortata da una serie di testimonianze univoche, nei verbali degli interrogatori raccolti - 8 e 9 anni fa - dal sostituto procuratore antimafia di Firenze, Gabriele Chelazzi, prima di morire. Monsignor Curioni è mancato, anche lui per infarto, nel ’96. Ma il suo ex segretario ricorda bene tutto. E davanti ai microfoni del Tg5 ha confermato quell’incontro con Scalfaro. «Ci chiamò al Quirinale», dice monsignor Fabbri, «per dare il nostro aiuto a individuare un nome adatto a quel ruolo. Era un incontro che nasceva dalla grande amicizia tra il presidente e don Cesare».

Da mesi c’era maretta tra lo storico direttore del Dap, Nicolò Amato, craxiano di ferro e Scalfaro. Screzi, questioni personali. Ad Amato veniva rimproverato lo sgarbo consumato nei confronti di monsignor Curioni, sfrattato dai suoi uffici e confinato in due stanzette a Regina Coeli. Fatto superato - «i rapporti con Amato erano ottimi, aveva molto aiutato noi cappellani» assicura don Fabio - ma la cui eco era arrivata al Colle. Soprattutto in quell’incontro molto confidenziale - «qui ero seduto io e lì, come dove è lei, il presidente» - Oscar Luigi Scalfaro rievocò la volta che Amato gli aveva fatto fare due giorni di anticamera per riceverlo. «Quando io non ero nessuno, disse lui, ed è tutto da vedere che non fossi nessuno» sorride nel rievocare la scena il nostro testimone. E come venne fuori il nome di Adalberto Capriotti? «Purtroppo o no, fui io a farlo. Lo conoscevo bene, eravamo amici. Già in passato era stato il responsabile della polizia penitenziaria. Mi girai verso don Cesare: ma Capriotti non potrebbe essere? Scalfaro si alzò di scatto. Andò verso una specie di consolle dove consultò un librone con le posizioni di tutti i magistrati. “Può essere” disse».

Sia come sia, è così che Adalberto Capriotti, magistrato cattolico e «devotissimo», allora procuratore a Trento, andò a guidare le carceri italiane. Ed è questo il punto. Perché siamo allo snodo nevralgico di ciò che accadde di oscuro tra il governo Ciampi e Cosa nostra, tra Stato e Antistato. Il 26 giugno '93, tra la strage di Firenze (5 morti, alla fine di maggio) e quella di Milano il 27 luglio (altri cinque morti), Capriotti preparò una nota per il ministro Conso. Nella quale si suggeriva di diminuire del 10% il numero dei boss sottoposti al carcere duro (il «41 bis») e di revocare il regime speciale per le figure di secondo piano. Come «segnale positivo - scrisse - di distensione». E Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel governo di centrosinistra guidato da Ciampi, eseguì. Il primo novembre lasciò decadere i primi 140 decreti 41 bis per altrettanti mafiosi, che, tra novembre '93 e gennaio del '94, saliranno a circa 400, almeno. Nel più assoluto silenzio. Una decisione che avrà fatto rigirare nella tomba i giudici Falcone e Borsellino, che avevano voluto fortissimamente il 41 bis per piegare Cosa Nostra. Tanto che ora ci si chiede e si indaga se questo passaggio abbia costituito un momento dell’oscura trattativa con la mafia: fine delle stragi in cambio dell’eliminazione del 41 bis.

Dopo che avevate fatto da «ponte» su incarico del Quirinale nei primi contatti, Capriotti insediatosi al Dap se aveva qualcosa da dire al presidente passava tramite lei e monsignor Curioni, o aveva suoi canali? «No, assolutamente, aveva propri canali diretti», risponde monsignor Fabbri. E lei pensa che prima di scrivere quella nota abbia informato il capo dello Stato? «A questo proprio non so rispondere».

Ai pm di Palermo l'ex presidente della Repubblica ha puntualizzato: «Anzi, non ho alcun ricordo della persona del dr. Amato; non sono neppure in grado di affermare di averlo mai conosciuto».
pierangelo.

maurizio@alice.it

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