Controstorie

Le calciatrici senza burqa guidate da una ex marine

Haley Carter, dopo aver abbandonato la divisa, è diventata l'allenatrice della nazionale femminile

Le calciatrici senza burqa guidate da una ex marine

Luigi Guelpa

Haley Carter ha il pallone nella mente e l'Afghanistan nel cuore. Conciliare le due anime per un ex marine potrebbe apparire quasi impossibile, ma la 35enne texana, ex portiere della nazionale femminile degli Stati Uniti, ci è riuscita. Dal dicembre del 2016 si è trasferita a Kabul per allenare le ragazze della squadra di calcio. Sembra un paesaggio distopico, in realtà è tutto vero e appartiene a questo mondo: c'è qualcosa oltre il burqa nel pianeta donne dell'Afghanistan. «Sì, è vero. Da queste parti si gioca a pallone. C'è passione, entusiasmo, desiderio di riscatto», spiega Haley. Non accetta che il suo interlocutore parli di missione impossibile, conosce bene l'Afghanistan per averlo praticato da militare. Ha avuto modo di entrare in contatto con il mondo femminile e quando la Fifa ha lanciato il bando per un posto da allenatore delle ragazze di Kabul non ha esitato un istante.

Haley è una donna animata dal moto perpetuo: marine degli Stati Uniti, una laurea all'Accademia Navale, calciatrice professionista, in prima linea nelle operazioni a stelle e strisce in Iraq e Afghanistan e oggi commissario tecnico di una nazionale che in molti neppure credono possa davvero esistere. «Ero poco più di una ragazzina quando dopo aver visto un documentario di Discovery Channel sul servizio militare decisi che quella sarebbe stata la mia professione. Senza però abbandonare la passione per il calcio che praticavo al college. Una passione che l'ha portata a difendere la porta della nazionale Usa 27 volte, dovendo fare i conti con l'icona vivente Hope Solo, una sorta di Buffon al femminile. Nel 2016 ha accettato l'incarico della Fifa, una sorta di progetto per insegnare il calcio alle donne dove guerre e integralismo non lo consentirebbero. «La nazionale afgana sta vivendo ancora un periodo di formazione. È nata nel 2007, ma solo nel 2010 ha disputato una vera e propria partita ufficiale. Più che i risultati sul campo, tuttavia, la squadra è un modello per un'intera generazione di ragazze e di donne afgane», racconta. Haley si considera più una sorta di missionaria del pallone che un tecnico dall'ambizione smisurata. Lei sa davvero che cosa vogliono le ragazze afgane: giocare a pallone e attraverso il calcio emanciparsi, sollevando il burqa prima ancora di una Coppa del Mondo. La scintilla era scoccata in occasione dei mondiali di Germania del 2006, quelli del trionfo azzurro, trasmessi anche dalle tv di Kabul. Le giovani rimasero folgorate da Beckham, Henry e Ronaldinho. Perché non ci proviamo anche noi? Si domandarono Khalida e Shamila, oggi veterane della nazionale. Da quel punto interrogativo che suonava quasi una boutade è nata invece la nazionale dell'emancipazione che qualche settimana dopo si è radunata in un parco di Kabul, il Baghe Zanana, letteralmente il Giardino delle Donne. Dal 2016 il giardino è la seconda casa di Haley che percepisce 30mila dollari l'anno più una stanza all'hotel Park Star e che dirige gli allenamenti di ragazze in magliette a maniche lunghe, pantaloni della tuta e berretto da baseball al posto del burqa. Curve e rotondità ancora una volta sacrificate in nome di un islam estremo e medievale, ma che ha il suono di un cambiamento radicale rispetto al passato. Ai suoi albori la Coverciano afgana era considerata off limits per gli uomini, fino all'arrivo dell'allenatrice americana, che ha ottenuto di poter lavorare con Abdul Shaker Hamid, un ex agonista di karate. «Sono stata aiutata dalla federazione e poco alla volta siamo riusciti a risolvere parecchi problemi - racconta - Ho la fortuna di allenare ragazze coraggiose. Molte di loro hanno avuto la forza di opporsi a padri e fratelli che tentavano in ogni modo di ostacolare la loro scelta». Ad Abdul è stato concesso di entrare nel Baghe Zanana, ma nessun altro uomo si può avvicinare. «Ci allenavamo sapendo che all'esterno c'era un cordone della polizia armato fino ai denti. Non era consentita la presenza degli spettatori, ma esisteva anche il timore di attentati da parte dei talebani. Tutto questo però non ci ha scoraggiate», ricorda la pioniera Shabnam Mobarez, unica professionista, ingaggiata dai danesi dell'Aalborg. Il Baghe Zanana è di ridotte dimensioni, consente al massimo partite di sette giocatrici per squadra. Halye aveva bisogno di maggior spazio e ha ottenuto dal governo afgano un permesso storico. Khalida, Shamila, Shabnam e le sue amiche hanno potuto espatriare, e lo scorso gennaio si sono recate ad Amman, in Giordania, per una breve tournée. In quel permesso è racchiusa la contraddizione dell'Afghanistan. Le ragazze non avrebbero mai potuto esibirsi in pubblico a Kabul, Kandahar o Herat, ma all'estero è tutta un'altra cosa. Amman è stata la grande rivelazione, ma i risultati sportivi ottenuti nelle esibizioni passano in secondo piano di fronte alle emozioni che queste ragazze hanno provato scorrazzando per Wakalat Street, cuore pulsante dello shopping giordano, «benedetto» dalla regina Rania. Perdendosi nel meraviglioso scintillio delle vetrine dei negozi hanno scoperto un mondo nuovo, distante anni luce dalla vita di Kabul. «Non è facile quello che sto facendo - confessa Haley - ma è l'entusiasmo a regalarmi energie che neppure pensavo di avere. Mi vengono in mente gli anni trascorsi da soldato a Bagdad, Falluja e Kabul, quando nei momenti liberi mi intrufolavo tra i bambini in strada per dar vita a interminabili partite di pallone.

Il calcio è lo sport che più di ogni altra disciplina unisce le culture».

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