Cultura e Spettacoli

CAMORRA-SELLER I nuovi romanzi criminali

Intervista a Luigi R. Carrino il giovane autore di «Acqua storta»

«So’ rimasto come a un fesso», ha detto in dialetto padovano Marco Vicentini, l’editore del Meridiano Zero che corre a Nord Est, appena letto il manoscritto del romanzo di Luigi Romolo Carrino. A riprova dell’effetto spiazzante, la forza persuasiva e l’impulso di immedesimazione scatenati dall’opera prima dell’esordiente napoletano basti dire che il libro uscito a fine gennaio con il titolo di Acqua storta (Meridiano Zero, 125 pagg., euro 10) è andato esaurito in una settimana. È una storia di camorra, un’altra. Ma è tutta un’altra storia. E basti dire che rottura di un tabù, frattura di clichè, scandalo del lettore e onta di Don Antonio capoclan è l’omosessualità del suo figliolo e protagonista. Giovanni «Acqua storta», campione di spietatezza e machismo, da «reuccio» e primogenito del boss merita di ereditare il titolo del papà dall’occhio azzurro liquido e dai loschi affari in corso nelle paludi di Villa Literno, bonificate «per farci la discarica della munnezza». Ma avrà, per la stortura «de li mal protesi nervi» - come, citando Dante, ogni camorrista chiamerebbe il vizietto di un qualsiasi cowboy del Wyoming -, la sorte che si merita. Finale da copione. Prescritto col rigore di una legge inesorabile dal sistema camorrista. Codificato, soccorrono le cronache recenti, nel «decalogo» del perfetto uomo d’onore di Salvatore Lo Piccolo. Suggerito da un fatto accaduto. Eppure, finale con doppio colpo di scena: escogitato dall’autore 39enne che a codici, prescrizioni e cronache si è ispirato.
Carrino, a scanso di equivoci e accuse di plagio, quali sono le sue fonti? Nomi e cognomi.
«Come ho scritto nei crediti, debiti e ringraziamenti in appendice, non esiste il clan Acqua Storta, e per questa storia ho attinto alla mia vita, al lavoro di persone, di giornalisti, di gente che combatte la camorra in diversi modi».
I nomi...
«Certo eccoli. Tutta la produzione di Gigi Di Fiore: le storie di camorra scritte su Il Giornale e su Il Mattino e La camorra e le sue storie scritto per la Utet (pagg. 496, euro 12.50). Il giornalismo di denuncia di Rosaria Capacchione. Il libro inchiesta di Matteo Scanni e Ruben Oliva, ’O Sistema. (Rizzoli, 129 pagg. euro 19.50) È tutta gente seriamente impegnata, e il loro è un impegno civile, di informazione piuttosto che di invenzione letteraria. Questi signori “mostrano”, appunto, la realtà dei fatti».
Grato lei si dichiara «in particolare» a Roberto Saviano per aver scritto Gomorra (Mondadori, pagg. 331, euro 15.51).
«Come no: Saviano va ringraziato per il lavoro che ha fatto e per come lo ha fatto. Per il coraggio con cui lo fa. Ha il merito di aver dipanato tutta una tela fitta e complessa. Ha rivelato una trama intricata che strozza tutta l’Italia, non solo Napoli. Ha messo a nudo un intreccio di fili che perfino chi ci è intrappolato dentro non riesce a vedere o non vuole vedere. L’opera letteraria di Saviano è bella da leggere, godibile. Ma prima di questo ha fatto un eccellente lavoro di indagine. Ha operato all’Osservatorio sulla camorra, e questa è un’attività diversa, un’opera di denuncia».
Un’opera denunciata di plagio.
«Che sciocchezza. Saviano ha citato tutte le sentenze dei processi dagli anni ’80 in poi. Come si può dire che ha plagiato? Ha attinto a fonti documentate, chiunque può farlo liberamente, a maggior ragione uno scrittore. L’accusa di Di Meo non ha niente a che vedere con la qualità del romanzo. Gomorra ha venduto più di un milione di copie, un milione e duecentomila. Un successo da fare invidia.
E ora si annunciano nuovi best seller a sfondo camorristico. Ha già letto L’impero della camorra (Newton Compton, pagg. 288, euro 9.90) di Simone Di Meo?
«Non ancora».
Il suo Acqua Storta ha immediatamente sbancato in libreria.
«È uscito al momento giusto. Le recenti polemiche, le cronache delle faide, il fenomeno di ecomafia esploso a Natale, hanno fatto da enzima. E Gomorra ha spianato la strada. Non che prima non si parlasse di camorra, è sempre stato un tema sentito, né va dimenticato il precedente di Il camorrista, il romanzo di Giuseppe Marrazzo su Raffaele Cutolo si parla di anni ’80. Ma era un caso unico. Adesso la fiction sulla camorra sta diventando un fenomeno editoriale. Così Napoli è diventata la location noir per eccellenza. Ma è un problema politico prima che di moda o di gusto. Io però non intendevo scrivere un romanzo “sulla” camorra: non parlo di camorra, ma uso quel contesto per scrivere una storia che parla anche d’amore».
Amore poco romantico. La scena della sodomizzazione del figlio del clan rivale al carcere minorile di Nisida è di una crudezza insostenibile.
«Storia cruda sì, ma credo realista. Il giovane boss innamorato è tenero e rozzo. In fondo un vigliacco, e neanche il sentimento per Salvatore può cambiarlo. Di fatto continua a nutrire reverenza e senso di colpa verso la moglie Mariasole, vera protagonista segreta del romanzo. A lei ho tolto la parola. Ma i suoi non detti hanno dall’inizio - e nel finale - una forza potentissima».
Ma questa non è un’invenzione: è vero che nelle periferie napoletane tutto ruota intorno alle donne e alle madri. Neanche la storia che racconta è fino in fondo un’invenzione. Cita e ringrazia Ang Lee, il regista di Brokeback Mountain. Ma accenna nei crediti a esperienze della sua vita...
«Già, prima di scappare a Parigi, e di là poi a Berlino, Stoccarda e Roma, sono vissuto in Campania. Nato a Napoli e cresciuto tra Nola, Palma Campania, Quindici, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano. Come dire sul terreno di coltura di Pasquale Simonetti e Assunta Maresca, di Carmine Alfieri e Raffaele Cutolo. Queste storie ce le ho nel Dna. Me ne sono andato proprio per una storia di camorra, di cui ancora non riesco a liberarmi né a parlare. E vera è anche la storia dei camorristi gay che ha ispirato il mio romanzo. Erano due ragazzi diciottenni, uccisi a dieci giorni di distanza uno dall’altro. Qualche giornalista locale li ha riconosciuti. Ma qui mi riservo il diritto di tacere i nomi.

Per rispetto».

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