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Capote, il cinema e il senso di colpa
La pellicola si concentra sulla vicenda realmente accaduta che ispirò «A sangue freddo», ma lo scrittore-attore era un personaggio complesso
La pellicola si concentra sulla vicenda realmente accaduta che ispirò «A sangue freddo», ma lo scrittore-attore era un personaggio complesso
da Berlino
Secondo film americano in chiusura di Berlinale. Dopo Find Me Guilty («Provate a trovarmi colpevole») di Sydney Lumet, con un Vin Diesel da premio, ieri sè visto il puntiglioso ma monotono Capote di Bennett Miller (fuori concorso), protagonista Philip Seymour Hoffman, che ne è lideatore.
Il titolo italiano sarà Truman Capote. A sangue freddo, infatti nel film cè solo un episodio della vita dello scrittore, anche se dilatato fra 1959 e 1965. In quegli anni due ladruncoli sterminavano a coltellate e fucilate padre, madre e due ragazzi per rapinarli di quaranta dollari nel Kansas; venivano arrestati due mesi dopo, condannati e impiccati. Solo dopo, Capote - divenuto «amico» di uno dei due detenuti, cui aveva millantato la salvezza grazie alla fama letteraria - ne pubblicava la storia in A sangue freddo. Da qui il grande film omonimo di Richard Brooks, con Robert Blake e Scott Wilson (1967). Cinema e realtà si sarebbero sovrapposti per Blake. Poi noto come il Baretta dei telefilm, lo scorso anno è stato assolto dallaccusa daver ucciso a coltellate la moglie, ma poi è stato condannato a risarcire i figli con trenta milioni di dollari.
Quanto a Capote, per lui serano sovrapposti letteratura e cinema. Nel suo libro, lui non appariva; invece nel film di Brooks un personaggio allude a lui, ma la sobrietà dellinterprete, Paul Stewart, irritò il viperino Capote.
Coccolato dallalta società statunitense e italiana (gli Agnelli), Capote coltivò unintensa propensione mondana alla quale il film di Miller accenna soltanto. Ad imporlo definitivamente nei salotti anche europei era stato il romanzo Colazione da Tiffany e il film di Blake Edwards, con Audrey Hepburn. Ma allo scrittore davano ancora ombra i coetanei, lex amico Gore Vidal e il mai amico Norman Mailer. Eppure i segni del destino erano stati precoci.
Harper Lee, che da bambina giocava con lui, nel romanzo autobiografico Il buio oltre la siepe scrive di Capote: «Portava calzoncini di lino blu che si abbottonavano con la camicia, aveva capelli bianchi come la neve, appiccicati alla testa come la peluria di un anatroccolo; aveva un anno più di me, ma io ero più alta. (...) I suoi occhi azzurri talora sincupivano; aveva una risata improvvisa e felice e il vezzo di tirarsi una ciocca di capelli che sporgeva ribalda sulla fronte... Era un Merlino tascabile, pieno di progetti eccentrici, di strane aspirazioni e bizzarre fantasie».
Anche Il buio oltre al siepe diverrà un film di Robert Mulligan. Ma Capote - ormai cresciuto, sebbene di poco - non aveva potuto interpretarvi se stesso, accanto a Gregory Peck. A cinquantanni, sembrava condannato a rimanere al di qua della macchina da presa e non sempre con grandi esiti: Il tesoro dellAfrica (1954), dove laveva chiamato in extremis Huston per salvare il salvabile quando già si girava in Italia, è uno dei peggiori film dal cast stellare (Humphrey Bogart, Peter Lorre, Gina Lollobrigida) dogni epoca. Invece nel 1976 era proprio leco residua di A sangue freddo a valere a Capote il ruolo di se stesso contro noti investigatori della letteratura, interpretati da Alec Guinness e David Niven, Peter Sellers e Peter Falk, in Invito a cena con delitto di Robert Moore.
Questo nel film visto a Berlino non cè. Come non cè che chi presto giunge in cima, poi può solo scendere. Ma Miller e Hoffman non esitano a ricalcare il finale del film di Brooks, con la lunga, crudele scena della duplice impiccagione. Il senso di colpa che Capote ne avrebbe tratto è sintetizzato però in una semplice didascalia. «Dopo A sangue freddo, Capote non finì altri libri». Che è vero alla lettera, ma non nella sostanza. Infatti un altro libro - e che libro! - di Capote, lincompiuto Preghiere esaudite, uscirà postumo (Garzanti, 1987), dopo essere stato trascinato per ventanni di viaggio in viaggio, di alcol in droga.
Secondo film americano in chiusura di Berlinale. Dopo Find Me Guilty («Provate a trovarmi colpevole») di Sydney Lumet, con un Vin Diesel da premio, ieri sè visto il puntiglioso ma monotono Capote di Bennett Miller (fuori concorso), protagonista Philip Seymour Hoffman, che ne è lideatore.
Il titolo italiano sarà Truman Capote. A sangue freddo, infatti nel film cè solo un episodio della vita dello scrittore, anche se dilatato fra 1959 e 1965. In quegli anni due ladruncoli sterminavano a coltellate e fucilate padre, madre e due ragazzi per rapinarli di quaranta dollari nel Kansas; venivano arrestati due mesi dopo, condannati e impiccati. Solo dopo, Capote - divenuto «amico» di uno dei due detenuti, cui aveva millantato la salvezza grazie alla fama letteraria - ne pubblicava la storia in A sangue freddo. Da qui il grande film omonimo di Richard Brooks, con Robert Blake e Scott Wilson (1967). Cinema e realtà si sarebbero sovrapposti per Blake. Poi noto come il Baretta dei telefilm, lo scorso anno è stato assolto dallaccusa daver ucciso a coltellate la moglie, ma poi è stato condannato a risarcire i figli con trenta milioni di dollari.
Quanto a Capote, per lui serano sovrapposti letteratura e cinema. Nel suo libro, lui non appariva; invece nel film di Brooks un personaggio allude a lui, ma la sobrietà dellinterprete, Paul Stewart, irritò il viperino Capote.
Coccolato dallalta società statunitense e italiana (gli Agnelli), Capote coltivò unintensa propensione mondana alla quale il film di Miller accenna soltanto. Ad imporlo definitivamente nei salotti anche europei era stato il romanzo Colazione da Tiffany e il film di Blake Edwards, con Audrey Hepburn. Ma allo scrittore davano ancora ombra i coetanei, lex amico Gore Vidal e il mai amico Norman Mailer. Eppure i segni del destino erano stati precoci.
Harper Lee, che da bambina giocava con lui, nel romanzo autobiografico Il buio oltre la siepe scrive di Capote: «Portava calzoncini di lino blu che si abbottonavano con la camicia, aveva capelli bianchi come la neve, appiccicati alla testa come la peluria di un anatroccolo; aveva un anno più di me, ma io ero più alta. (...) I suoi occhi azzurri talora sincupivano; aveva una risata improvvisa e felice e il vezzo di tirarsi una ciocca di capelli che sporgeva ribalda sulla fronte... Era un Merlino tascabile, pieno di progetti eccentrici, di strane aspirazioni e bizzarre fantasie».
Anche Il buio oltre al siepe diverrà un film di Robert Mulligan. Ma Capote - ormai cresciuto, sebbene di poco - non aveva potuto interpretarvi se stesso, accanto a Gregory Peck. A cinquantanni, sembrava condannato a rimanere al di qua della macchina da presa e non sempre con grandi esiti: Il tesoro dellAfrica (1954), dove laveva chiamato in extremis Huston per salvare il salvabile quando già si girava in Italia, è uno dei peggiori film dal cast stellare (Humphrey Bogart, Peter Lorre, Gina Lollobrigida) dogni epoca. Invece nel 1976 era proprio leco residua di A sangue freddo a valere a Capote il ruolo di se stesso contro noti investigatori della letteratura, interpretati da Alec Guinness e David Niven, Peter Sellers e Peter Falk, in Invito a cena con delitto di Robert Moore.
Questo nel film visto a Berlino non cè. Come non cè che chi presto giunge in cima, poi può solo scendere. Ma Miller e Hoffman non esitano a ricalcare il finale del film di Brooks, con la lunga, crudele scena della duplice impiccagione. Il senso di colpa che Capote ne avrebbe tratto è sintetizzato però in una semplice didascalia. «Dopo A sangue freddo, Capote non finì altri libri». Che è vero alla lettera, ma non nella sostanza. Infatti un altro libro - e che libro! - di Capote, lincompiuto Preghiere esaudite, uscirà postumo (Garzanti, 1987), dopo essere stato trascinato per ventanni di viaggio in viaggio, di alcol in droga.
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