Politica

Caso Alpi, una verità che non fa audience

Sul caso della giornalista Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo del 1994, «c'è stata in questi dieci anni una mistificazione sistematica, c'è stata una rincorsa tra mass media e investigatori, e investigatori imbeccati da vari personaggi che si sono aggirati intorno a questa vicenda e che l'hanno inserita in una catena di montaggio incredibile di calunnie nei confronti di persone delle istituzioni e di privati cittadini, calunnie che si infrangono di fronte alla realtà incontestabile che abbiamo accertata. L'informazione ha campato per dieci anni su queste menzogne, sfociate in centinaia di articoli, trasmissioni televisive, libri, premi giornalisti e letterari, e persino in un film. Tutto inventato dal circuito mediatico giornalistico, tutto falso. Abbiamo persino accertato, e abbiamo trasmesso gli atti alla magistratura, che venivano fabbricate relazioni di servizio, come quelle della Digos di Udine, sulla base di dichiarazioni di presunte fonti confidenziali e nelle quali si indicavano nomi e cognomi di mandanti ed esecutori. Siamo riusciti ad individuare queste fonti, le abbiamo chiamate a testimoniare, e i testimoni hanno dichiarato di non aver mai detto le cose che le relazioni di servizio attribuivano loro. Abbiamo denunciato la questura di Udine per la falsificazione degli atti e abbiamo denunciato anche un magistrato di Reggio Calabria che è venuto a dirci in Commissione di aver personalmente visto e trasmesso alla procura di Roma il certificato di morte di Ilaria Alpi rinvenuto tra le carte sequestrate a un presunto trafficante di armi, documento mai sequestrato, mai visto, mai trasmesso e mai ricevuto...».
Chi parla è l'onorevole Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta, costituita da venti deputati e che indaga da dieci mesi sul caso Alpi-Hrovatin: «Non sono io che lo affermo - dice Taormina - faccio solo la cronaca di quello che abbiamo accertato, sulla base di testimonianze inoppugnabili e dei risultati incontrovertibili e insuperabili delle perizie del Centro nazionale della Polizia Scientifica, condivisi da tutta la commissione e anche dal consulente della famiglia della vittima».
Niente di quanto è stato detto e scritto e filmato in questi dieci anni ha retto di fronte alle testimonianze raccolte dalla commissione d'inchiesta e ai risultati delle perizie. La versione accreditata dal circo mediatico era questa: Ilaria Alpi, inviata dalla Rai in Somalia per seguire gli avvenimenti alla vigilia del ritiro dei militari italiani, avrebbe svolto per suo conto delle indagini segrete e avrebbe scoperto responsabilità inconfessabili sul traffico delle armi, sui rifiuti tossici e radioattivi e sugli imbrogli della cooperazione. Per questa ragione sarebbe stata uccisa, in un agguato predisposto appositamente per lei, e con una vera e propria «esecuzione» commissionata dai trafficanti da lei scoperti e che si accingeva a denunciare, e mirata con un colpo alla testa sparato con un'arma corta a contatto, e dai suoi bagagli sarebbero fatti sparire i quaderni con i suoi «appunti» con i risultati dell'inchiesta.
Ebbene, le perizie eseguite con i più moderni metodi sull'auto su cui l'Alpi viaggiava, una Toyota che era stata occultata ma che la commissione è riuscita a recuperare e a portare in Italia risalendo al suo primo proprietario, hanno provato senza possibilità di dubbio: che i colpi assassini sono stati sparati da un kalashnikov da una distanza di almeno cinque metri, e sono stati sparati solo dopo che avevano sparato per primi gli uomini di scorta alla Alpi, che poi si erano dati alla fuga, e per reazione; che lo sparatore ha sparato in movimento, per cui la distanza effettiva si può valutare intorno ai 15-20 metri; che la giornalista è stata colpita da un secondo proiettile, dopo che il primo proiettile sparato aveva colpito e ucciso l'operatore Hrovatin, che sedeva nell'auto davanti, e si era rovesciato abbassando la testa e rendendo libero lo spazio davanti al parabrezza; e il secondo proiettile sparato ha bucato il sedile e ha raggiunto alla testa Ilaria Alpi che in quel momento non era visibile perché si era accovacciata dietro il sedile.
Nessun agguato, quindi, predisposto per uccidere, e per uccidere proprio la Alpi, ma una raffica esplosa da lontano e in risposta agli spari della scorta, e mirata a colpire l'operatore. Semmai, c'era l'intenzione di operare un sequestro di persona, e magari proprio di qualche giornalista, a scopo propagandistico e di riscatto: ne aveva avuto qualche sentore il generale dei carabinieri Carmine Fiore, che qualche giorno prima aveva avvertito i giornalisti di stare in guardia.
Quanto alla presunta inchiesta e ai quaderni scomparsi, la commissione d'inchiesta non ne ha trovato nessuna traccia, né ha raccolto e potuto verificare testimonianze attendibili al riguardo. La Commissione ha invece rintracciato dopo dieci anni presso la Rai, in un cassetto di una dipendente, che non si sa a che titolo li abbia avuti, degli appunti di Ilaria Alpi scritti prima che lei partisse per la Somalia e riguardanti i miliardi spesi per la cooperazione, cifre e fatti universalmente noti, e una lettera del capo dell'associazione «Somalia Settanta», una specie di diario, in cui veniva ricostruito giorno per giorno tutto quello che Ilaria Alpi aveva fatto in Somalia, senza nulla che lasci supporre di particolari e eclatanti «scoperte» che la giornalista abbia potuto fare. Erano tanto significative queste carte che nessuno alla Rai aveva mai pensato di farle avere alla magistratura o alla commissione d'inchiesta. «Tutto quello che è stato accertato e tutto quello che è stato smentito - conclude l'onorevole Taormina - non sminuiscono minimamente il sacrificio di Ilaria Alpi e del suo operatore, mentre in Somalia adempivano scrupolosamente al sacrosanto dovere dell'Informazione».

Che bisogno c'era per rendere loro il doveroso omaggio di inventare circostanze false e inesistenti misteri?
Linonline.it

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