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Il Cassius Clay d’Italia sta studiando da papà

Roberto Cammarelle, il pugile campione olimpico e del mondo in carica vede già la finale del mondiale. Il futuro: "Potrei tentare tra i professionisti, ci penserò. Vorrei essere il Clay d'Italia"

Il Cassius Clay d’Italia  
sta studiando da papà

Lo dice con un sorrisetto, neppure fosse una seccatura: «Ormai convivo col mal di schiena». Normale, fosse uno dei milioni di noi che le provano tutte pur di evitare le solite fitte. No, questo ragazzone dalle braccia poderose, il sorriso timoroso, grande, grosso, con la faccia senza segni, anche se la schiena dolora tira pugni sul ring. E i risultati sono niente male: campione olimpico e mondiale. Ed ora ci sta riprovando. Roberto Cammarelle oggi è un personaggio, anche se l’interessato rimanda al mittente la definizione. «No, sono uno schivo. Voglio essere qualcuno come pugile, non come personaggio». Ma qui, ai mondiali del Forum, tira aria diversa. Milano lo aspetta per consacrarlo. Milano è la sua città, quella in cui sentirsi re.

Cammarelle, tutti l’attendono ancora campione del mondo...
«Sono qui per questo. Ora me la vedo con il bulgaro Pulev, un tipo scorbutico, usa tutto quanto può nel bene e nel male. È campione europeo. Ma detto questo: sono più forte, devo andare avanti. Vedo già la finale. Non è da tutti vincere il mondiale due volte di fila, sarei per la terza volta sul podio (c’è un bronzo nel 2005, ndr): roba da guinness».

Ha la boxe nel cuore e l’Italia sul cuore?
«Guardi, sulla maglietta, dalla parte del cuore, c’è scritto: Mattia kg 5+. È mio figlio. È nato da poco e mi ha rasserenato, fatto capire che c’è altro nella vita. Mi piace da matti fare il papà, svegliarmi la notte, dargli la poppata».

Smentisce l’immagine del boxeur tutto muscoli e pugni…
«Guardi che io sono boxeur da noble art. Non mi piace lo spettacolo dove due si picchiano e basta. Vorrei che la gente tornasse a innamorarsi della boxe nobile».

Per farlo, serve restare dilettante o passare professionista?
«Boh! Non so cosa farò. Ci penserò. Di recente ho fatto i guanti con il gigantone Valuev e mi si è accesa una luce. Chissà, potrei provare nei professionisti».

Lontana l’idea di lasciare il pugilato?
«Tutto è possibile, ma la boxe è una droga. Non mi piace solo quella dello show business».

In questo momento voi, della nazionale dei pugni, siete la miglior risposta alle ragazze vincenti…
«Non mi sento invidioso e non mi importa essere famoso e cercato come la Pellegrini. Però è vero che questa Italia con i calzoni può essere la miglior risposta».

Quanto vale questa Italia?
«Siamo sulla buona strada. Il mondiale è più difficile di una olimpiade. L’Olimpiade dà più prestigio, ma qui è più difficile arrivare all’oro».

Punti su un nome?
«Domenico Valentino. Se passa va dritto verso la finale con il russo e può diventare campione. Siamo compagni di camera e sono suo padrino di cresima: perciò ci tengo».

Siete una nazionale che sta risvegliando l’interesse alla boxe. A Milano ci vorrebbe più pubblico?
«L’aria sta cambiando. Me ne sono accorto. C’è più gente pure nelle palestre. Il pubblico? Il Forum è molto grande, ma io l’aspetto per semifinali e finali. E le nostre vittorie aiutano».

Contro Stevenson o Savon, due cubani che hanno fatto storia, molti avversari davano forfait. Stava per capitarle con lo sloveno Urbanc. Le dice qualcosa?
«Vero che faccio paura: c’è gente che non ha i mezzi tecnici e neppure fisici per affrontarmi. Rispetto ai cubani io sono più buono. Loro erano implacabili. Ricordo Savon: non guardava in faccia nessuno, voleva sbrigare in fretta la pratica».

E se dovesse scegliere tra sentirsi un Teofilo Stevenson o Cassius Clay?
«Se avessi un decimo della personalità di Clay, sarei un grande. Creava interesse, gli piaceva apparire. Nel carattere sono più cubano: chiuso».

Clay pungeva e volava...
«Appunto: lui volava, io sono pesante. Penso a picchiare.

Mi piacerebbe diventare un Clay a modo mio».

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