Economia

Il Cavaliere d’acciaio che salvò il «Corriere»

Sull’orlo del fallimento negli anni Novanta, risorge grazie all’incontro con l’Avvocato

Giovanni Arvedi, il cavaliere della siderurgia di Cremona, ha avuto da sempre numerose passioni, più o meno forti a seconda dei periodi: la fotografia in cui da giovanotto svolge anche un ruolo professionale, la musica classica in quanto vive nella città di Stradivari, la vela in Liguria, la roccia a San Martino di Castrozza. Ma le sue grandi passioni sono in realtà due: la siderurgia e l'editoria. Nell'acciaio c'è da sempre in quanto il padre lo commerciava prima che lui cominciasse a produrlo nel 1974. Ed è proprio con l'acciaio che a un certo punto compie un ruzzolone tale da rischiare di fallire in quanto vuole costruire una acciaieria tascabile e così innovativa che persino i tedeschi, di solito precisi in queste cose, sbagliano i conti e di conseguenza gli impianti.
Il primo amore. L'editoria ha invece per lui il sapore del primo amore o quasi: nel 1984 vari personaggi blasonati intervengono per salvare la Rizzoli e il Corriere finiti in mano alla P2. Il più blasonato è Gianni Agnelli il quale dice: «Vado a fare un'opera di disinfestazione». Ed anche se poi si rivela per lui un bel business, un giornale titola: «Arriva il Ddt». Tra i personaggi invece meno blasonati figura Arvedi, il quale è però anche l'unico a mettere sul piatto ben 145 miliardi di lire in contanti. Giuseppe Guzzetti, il politico-banchiere, glielo ricorda ogni volta che lo incontra: «Sei stato l'unico». Lui replica: «L'editoria mi manca».
Dall’altare alla polvere. Magro, ansioso, occhi quasi a palla, classe 1937 e una laurea honoris causa in gestione aziendale dall'università Cattolica, Arvedi è passato dall'altare degli anni Ottanta alla polvere degli anni Novanta prima di ritornare ad emergere alla grande nel nuovo millennio. E con la prospettiva di raddoppiare il fatturato nell’arco di tre anni, di entrare forse nel 2008 in Borsa, di aprire altre fabbriche in Russia, in Cina, in India. Insomma, sprizza entusiasmo alla stregua di un ventenne e considera le disavventure come acqua passata. O almeno ci prova. È convinto che il salvataggio della Rizzoli abbia un nome preciso, il suo, in quanto molti sembrano, dice, «avere dimenticato che sono stato io a girare per tutta Milano, da Pirelli ai Falck e ai Bonomi, per cercare aiuto ancora prima di approdare a Torino». E ricorda anche di avere dato un forte contributo, prima quindi di essere messo curiosamente da parte, nel riportare rapidamente la Rizzoli in utile riducendo le 64 società che c'erano in appena sei. Per farla breve, nell'editoria Arvedi ha ancora qualcosa che gli brucia. Nell'acciaio invece non c'è proprio nessuna animosità, forse perché i tedeschi della Mannesmann che gli hanno fatto passare il momento più brutto della sua vita con più di mille miliardi di lire di debiti, sono poi falliti. Dice: «Grandi pasticcioni nonostante fossero i numeri uno al mondo negli impianti siderurgici».
L'idea di Arvedi, che poi si concretizza nel 1988 con una serie di brevetti, è di costruire una miniacciaieria che sia dieci volte più piccola degli impianti tradizionali che sono grosso modo lunghi un paio di chilometri se non di più e che produca nastri di acciaio di alta qualità in spessori sottili, diciamo attorno ad un centimetro, e allo stesso costo di quelli spessi. Il motivo per la validità di un'acciaieria tascabile è, spiega Arvedi, «basato sulla conoscenza del prodotto e degli impianti». Conoscenza che lui ha in maniera eccellente perché di fatto respira acciaio sin dalla nascita. Tanto da definirsi un «artigiano-siderurgico». E allora? Gli impianti classici, dice, «sono così grandi da non riuscire a controllare per la loro eccessiva lunghezza le temperature del nastro che si raffredda molto velocemente quando è sottile. Risultato: i grandi impianti non sono in grado di produrre nastri sottili, sotto il centimetro e mezzo di spessore».
L’energia termica. Ed ecco l'idea: saltare un'intera fase produttiva, quella della laminazione a freddo, partire invece dall'acciaio liquido e creare un processo continuo, grazie anche allo sfruttamento dell'energia termica che c'è nell'acciaio liquido, per produrre rotoli d'acciaio sottilissimi con un impianto lungo appena 150 metri. Rotoli laminati di grande qualità e con uno spessore iniziale di 0,9 millimetri ma con l'obiettivo di scendere sino a 0,6. Una tecnologia, sostiene, «rivoluzionaria». E destinata all'industria dell'auto, al settore aeronautico, ai produttori di elettrodomestici.
Arvedi, che all'inizio degli anni Novanta produce bramme di acciaio e tubi al carbonio con un giro d'affari attorno ai 600 miliardi di lire, ordina gli impianti alla Mannesmann. Impianti che non esistono in nessun angolo del mondo. Ma qui iniziano i guai perché i tedeschi, dice, «per quanto bravi nel realizzare grandi acciaierie, non si comportano da tedeschi nel progettare impianti più piccoli. Pasticciano, commettono errori sui tempi di fluidificazione, costruiscono macchine sbagliate. Un disastro. E dopo tre anni li abbiamo sbattuti fuori dalla fabbrica. In seguito ci hanno anche risarcito con una cinquantina di miliardi ma intanto noi abbiamo perso tempo, soldi e abbiamo dovuto ricostruirci le macchine. Con costi enormi e ricorrendo ai debiti, mille miliardi».
Mediobanca e l’Avvocato. E a metà degli anni Novanta, più o meno quando diventa operativa a Cremona la nuova miniacciaieria, Arvedi è finanziariamente allo stremo e bussa alle porte di Mediobanca. In realtà è Gianni Agnelli che gli viene in aiuto con una telefonata: gli dice che può metterlo in contatto con i francesi dell’Usinor. Così nel 1998 l'Usinor acquisisce il 40% della Finarvedi mentre la Lucchini entra con una quota del 30% nella cassaforte di famiglia che a sua volta detiene il 60% della Finarvedi. E le banche consolidano i debiti. È previsto che debbano essere restituiti entro il 2010, Arvedi riesce invece a farcela nel 2005. Il segreto? La miniacciaieria produce da subito utili con un margine operativo lordo che in media è del 15% all'anno. Cosa che consente di pagare anticipatamente i debiti, liquidare i soci e rilanciare l'azienda. Oggi la Finarvedi produce un milione di nastri a caldo e vende altre 500mila tonnellate di prodotti, ha un fatturato di 1,1 miliardi di euro ottenuti con 1600 dipendenti sparsi in quattro stabilimenti: tre a Cremona (l’acciaieria supertecnologica che rappresenta il 56% del fatturato e due di tubi saldati) ed una a Sestri Levante (laminati di precisione in acciaio inox). L'export incide per il 30%, le spese per la ricerca sono il 5% del giro d'affari.
L’acciaieria tascabile. La tecnologia che ha riportato Giovanni Arvedi alla guida di un gruppo da cui sembrava invece uscito di scena e che lo ha catapultato con la sua acciaieria tascabile ad essere il numero uno in Europa e il numero due al mondo nei prodotti piani, si chiama Esp, Endeless strip production. Riduce i costi per la messa in funzione dello stabilimento del 30%. Soprattutto abbatte del 75% i costi dell'energia che nella siderurgia sono quelli maggiori. Grazie a questa innovazione, Arvedi lancia ora una nuova sfida in partnership con la Siemens: costruire un nuovo impianto in grado di triplicare la produzione dei nastri piani e renderlo operativo nel 2008 con un investimento di 300 milioni di euro, metà a carico suo, l'altra metà ricorrendo alle banche. A quel punto, dice Arvedi, «Cremona diventerà il centro mondiale della tecnologia dei piani con due impianti innovativi. E potremo chiedere la quotazione in Borsa».
L’accordo con Siemens. Interessante l'accordo con la Siemens che si basa su tre punti. Primo: Arvedi acquista dai tedeschi componenti fondamentali della linea di produzione della nuova acciaieria. Secondo: Arvedi vende alla Siemens in esclusiva per tutto il mondo l'uso dei suoi brevetti che poi i tedeschi venderanno sotto forma di impianti. Significa, sottolinea, «che i tedeschi venderanno tecnologia italiana». Terzo: joint venture paritetica per la vendita della nuova tecnologia nel mondo.
Nel frattempo Arvedi pensa anche al passaggio generazionale. Sposato con Luciana Buschini, non ha figli ma tre nipoti, figli della sorella della moglie, Mirella sposata Caldonazzo. Così sono in azienda Mario Caldonazzo, 1940, il quale segue una delle due società di tubi; Maurizio Calcinoni, 1962, marito di Caterina Caldonazzo e attuale responsabile commerciale dell'acciaieria dopo essere stato per dieci anni nel Far-East per il gruppo Zegna; Luigi Vinci, 1966, marito di Maria Luisa Caldonazzo, si occupa del controllo di gestione del gruppo.

Ma chi sarà il successore? «Se la vedranno tra di loro», dice.
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