Cultura e Spettacoli

La celebrazione di Mercury parte con gli inediti

Spuntano un brano mai sentito («Affairs») e altre rarità del cantante, scomparso nel ’91. Mentre un libro racconta gli esordi dei Queen

La celebrazione di Mercury parte con gli inediti

E figurarsi se non vengono i brividi. La voce di Freddie Mercury. In una canzone mai ascoltata prima. Già. Oddio, chiamarla canzone è un’esagerazione ottimista visto che Affairs - così si intitola e la potete decifrare registrata artigianalmente insieme con altre rarità su www.youtube.com/user/queenitaliaofficial?gl=IT&hl=it - è poco più che una jam session durante la quale il cantante abbozza un testo, improvvisa molto e così fanno gli altri tre Queen, con la chitarra di Brian May in buona evidenza eppure grezza assai. Ma la voce è la sua, accidenti, e si capisce subito. L’ha fatta ascoltare qualche giorno fa a Roma David Richards, il produttore tra l’altro di Innuendo e A kind of magic, mentre i tifosi più sinceri dei Queen, quelli raccolti dalla community di Queenitalia.it, stavano immobili in reverente silenzio.

È iniziato così, proprio mentre un’altra voce che fu, quella di Michael Jackson, è tornata a farsi sentire, il lungo anno che celebrerà (meglio dire: ricorderà con commozione) il ventennale della morte di Freddie Mercury, formalmente scomparso il 24 novembre del 1991 ma sostanzialmente ancora qui perché nulla, ma proprio nulla del suo modo di essere rockstar, dalla strepitosa interpretazione di Bohemian rhapsody, trentacinque anni fa, fino al clamoroso «Hello world» che urlò a Wembley per il Live Aid dell’85 o alla postuma Made in heaven di dieci anni dopo, suona demodé, superato o anche solo nostalgico.

E basta vedere quanti, camuffandosi appena, provano a cantare oggi, nel 2010, come pensano canterebbe Freddie Mercury da ultrasessantenne stravagante e vissutissimo, magari compiaciuto, forse - come qualcuno immagina John Lennon - giudice di un talent show oppure ancora cantante di una delle ultime superband rock, e chissà come sarebbero oggi i Queen. Molti di loro, gli aspiranti allievi come, ad esempio, Gerard Way dei My Chemical Romance, anzi a dire il vero quasi tutti gli aspiranti, se la scordano una gavetta come quella di Farrokh Bulsara nato a Stone Town di Zanzibar, appassionato e inarrestabile, intuitivo e geniale persino nel cambiarsi il nome in Fred poi Freddie Mercury, spargendo per il Kensington Market di Londra la sua frase (allora) preferita: «Sono un cantante ma non ho una band». Poi ne ha avuta qualcuna come gli Smile o i Sour milk sea (aprirono pure un concerto dei Black Sabbath e immaginatevi Freddie Mercury prima di Ozzy Osbourne nel 1970 o giù di lì) finché arrivarono i Queen e il resto lo conoscono quasi tutti.

I dettagli più dimenticati sono raccolti nel volume Is this the real life? The untold story of Queen scritto da Mark Blake per l’editrice inglese Arun (un estratto sull’ultimo Mojo). «Allora un giorno mi disse il nome del suo gruppo: Queen. Gli ho risposto: non farai molta strada, Fred». L’autore della memorabile previsione, Ken Testi, ha poi candidamente ammesso che «ho sbagliato», per carità, e forse sarà anche lui tra i visitatori della mostra sui Queen, definita dai ben informati come memorabile, che girerà la Gran Bretagna tra la fine di febbraio e la metà di marzo. Sarà d’altronde l’anno dei Queen, visto che festeggiano pure i quattro decenni dalla fondazione e hanno per giunta cambiato casa discografica, dalla Emi alla Island del gruppo Universal. E allora, ci mancherebbe, arriverà qualche inedito, visto che da inizio anno è prevista una lunga serie di ripubblicazioni di vecchi dischi, probabilmente zeppi di inediti o versioni alternative di canzoni già conosciute. Certo, con un imponente lavoro di post produzione forse anche Affairs - mamma mia che effetto sentire Freddie Mercury gigioneggiare in studio di incisione - oppure la strumentale Grand dame (ascoltata sempre a Roma giorni fa) potrebbero fare la loro figura. Ma sono dettagli, si sa.

I vent’anni senza Freddie Mercury serviranno forse a capire meglio i venti con lui, quella «Marlene Dietrich dell’heavy metal» che stava su di un altro binario, più avanti e più impermeabile di tutti gli altri, apolitico, scanzonato eppure impegnatissimo, capace di cantare «Mamma ho ucciso un uomo» (sempre Bohemian rhapsody, ovvio) con i capelli nerissimi che si appoggiavano su di un caban bianco aperto a ventaglio, leggero, volatile, capace di volare fin là in fondo ben oltre tutti i conformismi che sono ancora qui, purtroppo.

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