Cultura e Spettacoli

Charles de Gaulle, l’antipolitica sale della democrazia

A poche settimane di distanza dall’anniversario dell’appello lanciato dalla Bbc di Londra, il 18 giugno 1940, con cui Charles de Gaulle invitava la Francia a non piegarsi alla «strana disfatta» infertale dalle armate hitleriane, è doveroso fare un bilancio della fortuna che questa personalità registrò presso la classe politica e intellettuale del nostro Paese. Il capo di «France libre» fu, infatti, il creatore di una forma politica che si propose di correggere i vizi della «democrazia latina» attraverso le due importanti riforme costituzionali del 1958 e del 1962. Queste ampliavano il potere del Capo dello Stato, attribuendogli potere esecutivo e iniziativa referendaria, e ne subordinavano l’elezione non ad una votazione parlamentare ma al suffragio diretto di tutta la popolazione francese.
Di questa trasformazione, fu testimone oculare Giovanni Spadolini in una serie di articoli pubblicati, tra 1958 e 1964, che mettevano in evidenza la massiccia adesione alla «ricetta de Gaulle». La presa di potere gollista non era stata, sosteneva Spadolini, né una rivoluzione solitaria né un golpe bianco, propiziato dalla destra conservatrice e reazionaria. Dopo il voto a favore del Generale nelle elezioni presidenziali del dicembre 1958, accanto a lui si collocarono cattolici di vario orientamento, socialisti riformisti, radicali della vecchia guardia, uomini della destra liberale. Contro de Gaulle si posizionò compattamente il solo Pcf, seguito dalle forze della sinistra italiana che si diffusero in apocalittiche esternazioni relative al suo avvento sulla scena politica: la «minaccia grave» all’ordine repubblicano, denunciata da Paietta su l’Unità, la sconfitta della democrazia proclamata sull’Avanti, l’allarmante parallelismo tracciato con il bonapartismo dai socialisti, le preoccupazioni espresse da Saragat per un «esito fascista» dell’avventura gollista.
Tra gli anni 1961 e 1968, l’ipotesi di un «gollismo all’italiana» diveniva invece un modello di riferimento per coloro che, a destra o al centro, si opponevano all’apertura a sinistra della Dc e contemporaneamente domandavano una revisione dell’impianto costituzionale. Nel Msi, in particolare, de Gaulle fu visto come l’unico baluardo contro l’avanzata comunista e il suo modello di «governo governante» venne considerato la carta vincente per risolvere la crisi politica italiana, in una prospettiva presidenzialista che non fu mai abbandonata da questo schieramento prima del recentissimo ritorno di Gianfranco Fini ai ludi parlamentari della vecchia politica politicante. Anche altre forze, inserite nel cosiddetto «arco costituzionale», individuarono nel gollismo l’esempio da seguire per attuare una necessaria stabilizzazione del quadro politico italiano. Si apriva, in questo modo, la strada per le modifiche della Costituzione del 1948 e la Quinta Repubblica francese diveniva una semplice variante del modello democratico occidentale nell’analisi di politologi di formazione laica e liberale, come Salvatore Valitutti e Giuseppe Maranini, egualmente ostili ai mali della partitocrazia.
Fu soltanto nel 2003, con la pubblicazione del volume di Gaetano Quagliariello, De Gaulle e il gollismo (Il Mulino), che si arrivò tuttavia a un’analisi della biografia politica del Generale priva di pregiudizi ideologici, concentrata sull’esame del progetto gollista di costruire una «democrazia sovrana», ma non autoritaria, rispettosa della separazione dei poteri eppure incentrata sull’iniziativa del presidente della Repubblica, da cui dipendeva la facoltà di sciogliere le Camere e di indire i referendum. La vicenda politica di de Gaulle veniva inserita da Quagliariello in un ampio quadro che sottolineava la trasformazione delle varie «famiglie politiche» del secondo Dopoguerra, le quali confluirono in una struttura politica modernizzatrice guidata e resa possibile da de Gaulle. Su questa stessa linea si è posto il volume di Donatella Campus, L’antipolitica al governo (Il Mulino, 2006), che accomuna tre outsiders della politica, de Gaulle, Reagan e Berlusconi, egualmente estranei al «palazzo» e alle sue regole, ma capaci di imporsi facendo leva sul consenso popolare. L’antipolitica, nata come linguaggio di opposizione al sistema dei partiti è riuscita a diventare, nel gollismo, nel reaganismo, nel berlusconismo, il mezzo per governare nel lungo periodo, essendo essa in grado di rappresentare vasti obiettivi strutturali e di abbattere i tradizionali steccati che dividono i governanti dai governati.
Da questa mission emerge chiaramente una visione del fare politica non più «professionale», secondo la vecchia definizione di Max Weber. Per de Gaulle, come per Berlusconi, la fonte del potere è carismatica e legale allo stesso tempo. Da una parte, il leader si caratterizza per le sue doti e le sue azioni. Dall’altra, deve però trarre la sua legittimazione dal suffragio universale, escludendo altri intermediari. Consequenziale a questa visione della legittimità e della sovranità è la scelta di procedere alla riforma costituzionale attraverso un referendum popolare. La predilezione per questo strumento della democrazia diretta si basa sulla fiducia nella saggezza della gente comune contrapposta alla malafede dei partiti e delle élite politiche, molto spesso più preoccupati di garantire le loro rendite di posizione che l’interesse comune. Non casualmente, infatti, se il presidente francese Georges Clemenceau, durante il primo conflitto mondiale, aveva sostenuto che «la guerra era cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari», de Gaulle, nel corso della sua lunga attività di governo, aveva spesso aggiunto che «la politica era affare troppo importante per abbandonarla nelle mani dei politici».


eugeniodirienzo@tiscali.it

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