Chiacchiere da bar firmate D’Alema

Chiacchiere da bar firmate D’Alema

Giovanni Spadolini, che fra l’altro succedette a La Malfa alla guida del Pri, disse un giorno ad una riunione del suo partito che «quelle che contano sono le parole, il resto sono chiacchiere». Spadolini, che aveva una buona opinione di sé, e qualche ragione per nutrirla, intendeva dire che le parole che contavano erano le sue, il resto erano dei suoi contraddittori. Succede anche da noi, in epoca post spadoliniana, di ascoltare o leggere parole vane che non lasciano il segno, ad esempio a proposito del Pd e delle ineffabili «primarie» veltroniane. Capita di sentirne di tutti i colori, e non mette conto cercar di separare le chiacchiere dalle parole, nella speranza che di queste ultime, e sempre nel concetto spadoliniano resti qualche traccia. Tanta sproporzione e su certi argomenti ha maturato in noi una qualche indulgenza.
Fa più impressione sentir dire parole in libertà, «a schiovere» come si dice a Napoli, su temi di politica estera, anche perché questi ci impegnano tutti come Paese, e su una scena più vasta, e dinanzi a un uditorio, governi, diplomazia, stampa mondiale, meno indulgente rispetto alle nostre debolezze. Ebbene, a leggere qualche giorno fa il discorso di Massimo D’Alema alla Festa dell’Unità di San Miniato chi scrive ha avuto l’impressione di trovarsi di fronte a parole in libera uscita, da bar dello sport, o da vecchia sezione comunista. Solo che a pronunciarle era il nostro ministro degli Esteri, quel D’Alema che pure passa per uomo accorto, e furbo quel che basta.
Come può D’Alema dire che bisogna trattare con Hamas, posta al bando come centrale terroristica dall’Unione Europea, perché «è una organizzazione che gode di vasti consensi»? La definizione può valere anche per Al Qaida. E come può D’Alema ignorare che la stessa Hamas ha compiuto un mese fa un colpo di Stato sanguinoso concluso con la crudele messa a morte di coloro coi quali era stato al governo fino al giorno prima? D’Alema, che dirige la nostra diplomazia, non ignora che l’Europa ha condannato il putsch di Hamas, attribuendo al presidente deposto Abu Mazen la rappresentanza politica della Palestina. Né può ignorare, D’Alema, che anche il Quartetto di Onu, Stati Uniti, Europa e Urss ha investito Abu Mazen di un ruolo decisivo per la regione, un ruolo che non può certo giovarsi delle sortite di D’Alema. Va aggiunto che nei giorni in cui D’Alema straparlava a San Miniato, Romano Prodi si trovava a Gerusalemme ove per fortuna si guardava bene dal sostenere le tesi dalemiane.
Si pensa che il nostro ministro, invitato ad una riunione di partito, abbia parlato con maggiore libertà, ma la cosa non ci rassicura, perché queste sono dunque le cose che egli pensa: in partito, come in vino, veritas. Resta il fatto che le posizioni del ministro sono state smentite da Solana che si occupa di politica estera per l’Ue, e dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner il quale ha fra l’altro ridicolizzato il timore che sia l’Occidente a spingere Hamas verso Al Qaida in una alleanza che è viva e vegeta, e da tempo. D’Alema avrà avuto, nel discorso pro Hamas il plauso dei compagni di San Miniato, di certo ha avuto quello di Rifondazione e di Diliberto. E mortifica solo poter sospettare che il nostro ministro degli Esteri abbia inteso strappare qualche applauso a rischio di spostare la nostra politica estera in direzioni squalificanti.
Nella riunione di un istituto di studi sulla politica estera a Roma, qualche giorno fa, l’ex premier spagnolo Aznar a chi gli chiedeva cosa pensasse della politica dell’Europa sul Medio Oriente ha risposto: «È una politica tonta». La parola, in spagnolo ha qualche sfumatura in più, ma i presenti hanno capito benissimo. Il sospetto è che quel tonta non sia ancora il peggio.
a.

gismondi@tin.it

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