Politica

Ci mancavano solo le brigate comuniste

Prima che intervenga la brigata degli sminatori, il genio specializzato nel seminare la camomilla, conviene fotografare la situazione con un certo realismo, basato sull’esperienza italiana.
Ieri è arrivata al Riformista una lettera delle «Brigate rivoluzionarie per il comunismo combattente» (oibò). Vi era acclusa questa sentenza nei confronti di Berlusconi, Fini e Bossi, illuminata da una stella a cinque punte: «Lasciate la politica e il primo (Berlusconi, ndr) si consegni alla giustizia comune perché in quella comunista la sentenza sarà inevitabile». Naturalmente ha ragione Gianfranco Fini a trattarla come una pura e semplice sparata di un folle. Il mondo però non è precisamente popolato di gente mite e sensata.
Interessa la data: l’8 ottobre. È stata spedita da Milano subito dopo la decisione della Corte costituzionale, quando Berlusconi ha dichiarato di non volersi dimettere per questo. Il rosso della sentenza è stato riconosciuto con un bel tempismo da questa gentaglia, che vi si è riconosciuta. I cosiddetti folli - siamo d’accordo, non c’è nulla di più malato di mente di chi si professa comunista - hanno agito trasponendo in linguaggio violento la prima pagina del Fatto di Travaglio che nelle medesime ore proponeva le due O di Lodo come anelli di manette destinate al premier. Stesso compiacimento. Medesima fiducia nei processi. C’è in questi comunisti «combattenti» una strabiliante fiducia in una istituzione dello Stato che dichiarano di voler abbattere: la giustizia. Sono sicuri che i giudici funzionano nel senso da loro desiderato. E quindi - essendo rivoluzionari e perciò piuttosto animati dalla fretta - chiedono ai tre che rappresentano la coalizione di governo di cancellare il risultato delle elezioni e di consegnare quello che Michele Santoro chiama sprezzantemente l’«eletto dal popolo» alla giustizia del popolo, che sarebbe poi quella in azione oggi a Milano.
Sia chiaro. Solo un cretino può pensare ci sia un collegamento diretto (o anche di sponda) tra i fanatici antiberlusconiani di Repubblica e Annozero, di Di Pietro e Franceschini e queste Brigate comuniste. I sopraccitati settori dell’opposizione politica e giornalistica però fingono di non sapere o semplicemente dimenticano che in Italia il virus della lotta armata è meno dormiente dell’influenza H1N1, con la differenza che nel nostro caso non si è ancora trovato il vaccino ed anzi lo si innaffia volentieri indicando una via diversa dalle urne per sconfiggere il centrodestra.
Berlusconi, ovvio, non si spaventa. Lo conosciamo. È abituato alle minacce. A quelle internazionali e a quelle più o meno artigianali. A un tale, in vacanza a Roma, sembrò normale tirare sulla nuca del premier un treppiede a Piazza Navona (31 dicembre 2004), e ci furono subito schiere di sostenitori fintamente goliardi del gesto. Il clima da guerra civile mentale e verbale da allora si è fatto parossistico. Il merito è soprattutto di Repubblica, chiamiamolo merito. Hanno trasformato un avversario politico in un mostro lardellato di calunnie per il linciaggio mediatico universale. E in questo sottobosco tossico spuntano funghi omicidi.
Osserviamo la sequenza. Nei giorni scorsi, credendo di non fare nulla di strano, un consigliere comunale emiliano del Partito democratico ha lanciato un appello su Internet: «Ma santo cielo, possibile che nessuno sia in grado di ficcare una pallottola in testa a Berlusconi?». Due giorni dopo un fumetto riprende il tema. Franceschini definisce Berlusconi, rubando una definizione a Sciascia, un «ominicchio». Qualcosa meno di uomo. E che si fa a chi è meno di uomo?
Ricordiamoci che rimasugli di Brigate rosse, simpatizzanti e militanti del terrorismo, si aggirano ancora per l’Italia. Minimizzati, ritenuti incapaci di agire, trattati come dilettanti eccetera eccetera (qui hanno invece avuto mano forte, e va riconosciuto, Boccassini e Spataro). Ma, come ha dimostrato l’episodio di lunedì 17 ottobre alla caserma Santa Barbara di Milano, gente considerata quieta anche dagli specialisti, in realtà coltiva e realizza disegni di morte. Non sono cani sciolti o folli isolati. Hanno sempre qualcuno con cui passare le serate, trovare proiettili, armi, esplosivo, un sito internet per indottrinarsi, una figura di riferimento. Per il libico kamikaze (tra l’altro, la storia insegna, un kamikaze non è mai un capo, è sempre un gregario: di chi?) era Bin Laden; per questa Brigata è la rivoluzione cubana, ancor oggi vezzeggiata da pseudo eroi italiani della sinistra pop come Jovanotti o di quella colta e al caviale come il maestro Abbado, oltre che da politici non più in Parlamento ma sempre in corsa.
Ricordiamoci la vecchia lezione degli anni di piombo. Prima delle armi c’è sempre la teorizzazione. Esiste un testo del Collettivo politico metropolitano, il gruppo anticipatore delle Brigate rosse, dove si parla di «guerra civile latente e implicita» come giustificazione della lotta armata. Ehi, la si smetta di coltivare questa guerra. Ed è evidente chi la tiene al calduccio: quanti pensano di ribaltare il voto con qualcosa di estraneo alla contesa elettorale.
Restituiamo il primato alla politica, intesa come democrazia, per favore. E ci devono credere anzitutto i protagonisti della politica, in questo caso l’opposizione con il pugnale e la toga tra i denti. Altrimenti si lascia spazio ai folli (comunisti). Poi, giuro, eliminata la prospettiva dei crisantemi, saremo i primi a spargere petali di rose.
P.S. I brigatisti a quanto pare non si fidano solo della magistratura, ma anche delle poste. Mandare un ultimatum l’8 ottobre a Roma con scadenza il 16, confidando che arrivi in tempo è proprio roba da folli, in Italia.

Forse sono brigatisti svizzeri.

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