Controcultura

Claudio Sacchi, pittore sofisticato e popolare

Il suo virtuosismo tecnico sa di antico E ribadisce la dignità di fare arte per tutti

Claudio Sacchi, pittore sofisticato e popolare

Nature morte alla Cristoforo Munari, fra realismo e lo sfondo allegorico delle vanitas? Ritratti «filosofici» alla Salvator Rosa, con i personaggi impegnati a darsi più come emblemi di se stessi che come persone vere? Ritratti en travesti che ricalcano i grandi modelli del passato, portando, per esempio, turbanti come nel celebre dipinto di van Eyck? Ritratti english style, il cui accademismo di base viene appena animato da tocchi di vivacità moderna?

Così presentato, Claudio Sacchi, pittore di formidabile virtuosismo tecnico, potrebbe sembrare un artista antico. Sacchi invece intende semplicemente ribadire la legittimità e la piena dignità di un modo di fare arte, quello legato alla tradizione, che la critica contemporanea per molto tempo ha voluto assurdamente rimuovere dalle nostre coscienze. Sono stati comunque tentativi falliti anche con Sacchi, perché molti sono disposti ad ammirare una pittura tradizionale, piuttosto che le solite, noiose, accademiche manifestazioni del pensiero off. Impreparazione di massa? Forse, ma ci si chiede come mai l'arte, l'arte di valore e di dimensione universale, debba essere rivolta solo a una ristretta cerchia dei «preparati». Dubito che Giotto o Caravaggio pensassero di fare un'arte comprensibile solo a pochi eletti, a uomini di corte alle prese con letture intellettualmente sofisticate. Si potrebbe credere che le loro opere fossero destinate solo a pochi fortunati, mentre invece hanno avuto una destinazione prevalentemente pubblica; esposti nelle chiese per essere ammirati da innumerevoli persone che in arte non avevano alcuna preparazione specifica. Sofisticati e popolari allo stesso tempo, sono stati Giotto e Caravaggio.

Ciò che ammiriamo in Sacchi è il coraggio di voler essere ancora sofisticato e popolare, come i grandi artisti di una volta, conciliando i due termini che nell'arte contemporanea risultano troppo spesso antitetici. O si è sofisticati e impopolari o si è popolari e intellettualmente «arretrati». Davanti alla scelta obbligata, la maggior parte degli artisti contemporanei ha scelto l'impopolarità. Ha scelto di piacere solo a un'esigua casta di critici che è convinta di determinare gli interi destini dell'arte.

Sacchi non si è preoccupato. Che la scelta di Sacchi sia giusta o meno, è comunque una strada che cerca di risolvere questa drammatica crisi di popolarità dell'arte contemporanea. Sacchi cioè, si pone il problema dell'arte come comunicazione necessariamente universale, trovando le basi di questa koinè linguistica nella vecchia, cara tradizione. Finché quello della tradizione rimarrà il linguaggio più diffuso e compreso, finché sarà il linguaggio più popolare, sarà sempre non dico il linguaggio più moderno per antonomasia, ma almeno uno dei linguaggi moderni ammissibili.

L'adesione di molti al linguaggio della tradizione si fonda su due postulati fondamentali: uno è quello della mimesis, dell'oggettività, dell'imitazione delle apparenze così come le vediamo; l'altro è quello del mestiere, della concezione artigianale dell'arte, della capacità tecnica che distingue l'artista dal non artista e provoca spontanea ammirazione in chi non dispone di tali facoltà. L'artista contemporaneo è convinto che come intellettuale possa fare a meno di essere un ottimo artigiano: Sacchi controbatte, sostenendo che chi non è ottimo artigiano non può essere neanche intellettuale. Ognuno, davanti a un'opera di un concettuale, pensa di essere in grado di realizzarla materialmente; nessuno, davanti a un'opera di Sacchi, potrebbe dire di poterla rifare con identiche capacità. Rinunciare al mestiere significa rinunciare a un motivo di rispetto «popolare», a un elemento che provoca sudditanza nei confronti di chi guarda l'arte.

Può dirsi passatista un pittore che ragioni in questo modo, cercando di dare il suo onesto e oculato contributo alla crisi d'identità dell'arte contemporanea? Un nome va comunque ricordato fra i modelli moderni di Sacchi, quello di Pietro Annigoni. Anche la formazione di Annigoni era sufficientemente variata e complessa per distinguerla da una immagine dell'Accademia troppo legata ai suoi trascorsi ottocenteschi. Annigoni aveva imparato il sublime mestiere dei fiorentini cinquecenteschi, quello che di seguito ci mostrerà nei ritratti dei «grandi del mondo» a cui dovrà molta della sua popolarità; ma era anche un artista capace di innestare alle proprie forme, impeccabilmente classiche, sottili vibrazioni, improvvise espressioni del tratto, imprevedibili bagliori di una sensibilità non distaccata dal mondo, ma modernamente inquieta. Lo stesso Annigoni ammetteva questa sua doppia natura, affermando di guardare a due modelli sopra tutti gli altri, uno supremo e assoluto, l'altro più corrosivo e viscerale: «in cielo Fidia, in terra Magnasco». Un riferimento raro e prezioso, quello al Magnasco. Chissà quanti artisti italiani fra i modernisti degli anni 1945-48 avevano spazio nelle proprie conoscenze artistiche, in mezzo alle doverose nicchie dedicate a Picasso, Cézanne, Gauguin, o Matisse, anche per Alessandro Magnasco; chissà quanti di loro potevano immaginare che certo nevrotico e torturato agitarsi di segni, diventato tipico del sentire artistico moderno, aveva avuto nel lontano Magnasco uno splendido anticipatore di molti degli stranieri che ora ammiravano.

E quando la modernità diventa passato, diventa anche eternità, valore assoluto e non più relativo. Non c'è arte senza mestiere, ma non sempre basta il solo mestiere per fare arte ispirata. È noto che anche un artista come Annigoni abbia peccato di eccessivo mestiere, identificando la pittura come puro esibizionismo virtuosistico. Ci sono però momenti più o meno «ufficiali» (i disegni, i bozzetti preparatori, gli acquerelli), meno legati alla necessità di mostrarsi per forza, in cui egli riesce a recuperare una vena espressiva non convenzionale, non di rado più intima e sentita, dove l'aurea matrice cinquecentesca si carica di quelle intensità settecentesche che ancora dicono tanto all'occhio dell'uomo moderno.

È questo l'Annigoni, un Annigoni per cui il celeste Fidia si sporca volentieri le mani con il terrestre Magnasco, che più somiglia a Claudio Sacchi secondo un sodalizio formale e spirituale che si rinnova immediatamente ogni qualvolta ammiriamo le loro opere.

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