Cultura e Spettacoli

La clinica che curava l’anima agli scrittori

La clinica che curava l’anima agli scrittori

«Maupassant è morto» annuncia lo stesso scrittore il 18 febbraio 1893, ricoverato dal precedente anno nella clinica per alienati del dottor Blanche, a Passy, sobborgo di Parigi. E difatto così è: si susseguono le crisi di delirio e di convulsioni, le allucinazioni (alcune poeticissime, letterarie: parla con i morti, con il suo padre spirituale Flaubert, o il fratello Hervé; sostiene di vedere paesaggi lontani, la Svezia, l’Africa), la paralisi progredisce rapidamente, insomma la sifilide, contratta quando aveva 26 anni, fa il suo corso («Ho la sifilide! Finalmente! Quella vera! \ non le borghesi creste di gallo \ no, no, la grande sifilide, quella di cui è morto Francesco I... e ne sono fiero, per tutti i diavoli, e disprezzo tutti i borghesi» aveva scritto all’amico Pinchon). In realtà la fine vera sopraggiungerà il 6 luglio, a seguito di una crisi più violenta; ed egli muore invocando - o paventando - la notte eterna: «Le tenebre, oh! Le tenebre» sembra abbia esclamato.
Della malattia mentale di Maupassant, al pari di quella di tanti altri ospiti illustri, i registri della «casa di cura Blanche» riportano minuziose, giornaliere descrizioni: registri che si pensavano scomparsi (Émile Blanche, in punto di morte, raccomandò al figlio Jacques di distruggere «quei segreti di miserie atroci»), e che invece sono stati ritrovati, tranne qualche lacuna, e studiati. Su di essi, e su altri documenti, archivi della polizia, epistolari, memorie dei discendenti o amici dei protagonisti, registri di altre cliniche, Laure Murat ha costruito il suo appassionante volume La casa del dottor Blanche. Storia di un luogo di cura e dei suoi ospiti, da Nerval a Maupassant (il Melangolo, pagg. 441, euro 25, prefazione di Mauro Mancia, traduzione di Anna Benocci).
«Veri e propri libri magici sulla follia del XIX secolo» chiama la Murat quei «dodici pesanti volumi oblunghi ricoperti di sottile velluto verde usurato dal tempo, con angoli e costole rinforzati con guarniture di ferro»: un materiale inedito di raro valore, a testimonianza del lavoro volutamente appartato di una famiglia di psichiatri, Esprit Blanche e il figlio Émile (il padre di Esprit, Antoine Louis, era chirurgo, e già il figlio maggiore, Antoine Emmanuel, fonda a Rouen un reparto per malati mentali), la cui intera vita è dedicata alla cura di queste patologie, e - ciò che più importa - sostenendo metodi fondati sulla libertà, sulla comprensione, sul dialogo tra medico e paziente, sulla condivisione di molti momenti della giornata persino, in un’epoca in cui, per converso, da poco era cessato l’uso di mezzi di inimmaginabile barbarie. Perché l’alienato era considerato alla stregua di una bestia feroce, e tenuto in gabbie umide e infette, malnutrito, incatenato e torturato in ogni maniera, con ferri roventi, o con marchingegni come quelli usati per le donne.
Queste ultime paiono infatti naturalmente portate all’isteria, ovvero «follia ormonale»: basta dimostrare una qualche volontà di emancipazione (si cita qui il caso di una giovane operaia che ambiva a diventare cuoca), o avere un comportamento giudicato (da chi?) troppo libero (ad esempio amare un uomo di vent’anni più giovane), per essere internate. Per non parlare della masturbazione, crudelmente inibita con raffinati strumenti, quali il «compressore delle ovaie», di cui lo stesso Charcot, che in questo periodo conduceva i suoi studi sull’isteria (e che morirà a poche ore di distanza da Émile Blanche) non esitava a servirsi.
Le cause di internamento in genere - su segnalazione della polizia, o di parenti o conoscenti - potevano essere le più futili: non solo l’alcolismo, o il comportamento violento, ma anche il libertinaggio (si pensi a de Sade e ai suoi undici anni a Charenton), l’amore contrastato, l’eccesso di studio e di veglia, persino la lettura di romanzi. Va da sé quali e quanti abusi possa aver commesso chi semplicemente desiderasse «liberarsi» di una persona scomoda...
Nel periodo in cui Esprit Blanche inizia ad operare (nel 1821 apre a Montmartre la sua prima casa di cura; l’attività della famiglia Blanche si conclude nel 1893, con la morte di Émile) assistiamo per fortuna a notevoli progressi: già Philippe Pinel, ordinando di liberare dai ceppi i pazzi di Bicêtre, aveva aperto, alla fine del secolo precedente, la via alla moderna psichiatria. E il suo allievo Étienne Esquirol propone, in un famoso libello, alcuni mezzi per «migliorare la sorte di quegli sventurati». Restano i tre procedimenti ritenuti indispensabili: i salassi, l’idroterapia (bagni anche di giorni in vasche di zinco chiuse sino al collo del paziente; o docce fredde e violente), le continue purghe per evacuare gli umori malati.
Ma sono i Blanche ad adottare per primi metodi nuovi, con risultati vari ma sempre e comunque con la certezza di avere svolto il proprio compito con umanità. «Guardo solo le persone, amo solo le persone, e mi occupo unicamente delle persone» scriverà Émile nel 1891. Chi passa, più o meno a lungo, dalle loro cliniche - quella di Montmartre e la seconda, a Passy, dimore accoglienti arredate in uno stile da buona famiglia borghese, e circondate da ampi, ombrosi giardini - vede in loro amici insostituibili, colti, cortesi. I pazienti sono per lo più gentiluomini, aristocratici, politici, artisti (tra i più noti Gounod, Madame de la Valette, la contessa di Castiglione, Marie d’Agoult, il fratello di Van Gogh, Théo); la retta è alta, ma i Blanche sono anche capaci di farsi carico delle spese di soggiorno di chi abbiente non è. La loro ricerca si svolge tutta sul campo, il loro impegno è nel rapporto quotidiano con gli ospiti, che vi si affidano talvolta come a figure paterne, dolci e severe al tempo stesso.
È il caso di Gérard de Nerval, il «folle sublime», che entra nella clinica di Montmartre nel marzo 1841, con la diagnosi di «mania acuta»; e ben presto giudicato «incurabile». A Gérard pare di essere in un giardino incantato, un «giardino di Armida», e il dottor Blanche è «l’incantatore»; o il padre finalmente presente, che lo accudisce e lo ama. A differenza di Maupassant, grande descrittore di follie nelle sue pagine («I pazzi mi attirano sempre, e io ritorno sempre verso di loro, richiamato, malgrado me stesso, dal banale mistero della demenza»), il quale aveva la precisa percezione della propria - la parte sana sapeva spesso guardare con lucidità alla malata (sul tema del doppio in Maupassant vale rileggere il bellissimo testo di Alberto Savinio, Maupassant e «l’Altro») -, Nerval rifiutò sempre questa definizione, considerandosi un poeta, e in quanto tale colui che sa varcare «le porte d’avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile», come esordisce in Aurélia, il libro del sogno, del delirio, dell’allucinazione.
Il problema del confine tra creatività e follia non è di poco momento: è a partire dal 1841, appunto, che Nerval scrive le sue cose più folgoranti. Spirito pragmatico, non è ben chiaro quanto Blanche abbia compreso le immense qualità terapeutiche della scrittura per uno come Nerval: a lui sta a cuore che il paziente sia consapevole di avere bisogno del suo aiuto, e in tal senso Nerval era riottoso. A questo primo soggiorno ne seguirà un secondo, dodici anni dopo, questa volta nella clinica di Émile (Esprit era nel frattempo morto, nel 1853), a Passy, palazzetto nobiliare appartenuto alla principessa di Lamballe. Durante il lungo intervallo, però, in cui viaggia senza posa, non cessa di mantenere una fitta corrispondenza con Émile Blanche, «il migliore degli uomini»: «il mio cuore si calma solo pensando a lei. Mi scriva quello che devo fare perché soffro molto ed è dal cuore».
Sappiamo come finirà: Nerval non tollera a lungo gli «arresti» di Passy (questa volta il suo internamento è più duro), chiede di uscire e, sia pure a malincuore, Blanche lo lascia andare. Nella notte «nera e bianca», gelida, del 25 gennaio 1855 il poeta si impicca ad un cancello delle rue de la Vieille-Lanterne, una stradina dietro Châtelet: che non esiste più, dopo gli sventramenti voluti da Haussman.

Oggi, nel punto più o meno corrispondente, nello square della Tour Saint-Jacques (uno dei luoghi esoterici di Parigi), su una grossa lastra di pietra è scritto l’inizio della celeberrima El Desdichado: «Je suis le ténébreux, - le veuf, - l’inconsolé,/ Le prince d’Aquitaine à la tour abolie:/ Ma seule étoile est morte, - et mon luth constellé/ Porte le Soleil noir de la Mélancolie».

Commenti