Controcultura

La colpa si trasmette di padre in figlio

Andrea Caterini

C'è qualcosa di primitivo, di tellurico, nel nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri, Lo spregio. La storia è quella di un padre e di un figlio; anzi di due padri e due figli. Gli anziani sono i delinquenti del paese, non proprio rivali, perché gli affari che combinano sono diversi. Il primo è Franco Morelli, detto il Moro, e ha una pensione-bar-trattoria nella quale si arrangia col contrabbando di sigarette e alcol. L'altro è Don Ciccio, un siciliano sbarcato in quel paesino ai confini con la Svizzera con tutta la famiglia (per la verità solo coi maschi della famiglia). Pure i siciliani lavorano, chi in cantiere, chi altrove, ma è solo una copertura.

Il figlio del Moro si chiama Angelo (non un figlio di sangue però, perché l'uomo se l'è trovato davanti casa quando ancora era in fasce); quello di Don Ciccio, Salvo. I ragazzi diventano inseparabili, le combinano di tutti i colori, fino a truffare un uomo fingendosi giornalisti della Rai per portargli via una statua di san Michele Arcangelo che tiene in giardino. Ma Angelo - per competizione o per emulazione - vuole anche lui una statua come quella che hanno rubato e che è finita come oggetto sacro in casa di Don Ciccio. Ne acquista una gigante, ma meccanica, con le ali che si muovono a molle. Quando Salvo la vede si infervora, insulta l'amico, lo definisce un traditore, un Giuda.

È lo spregio. Ha profanato non solo la loro amicizia, la loro fiducia, ma anche il potere della sua famiglia. Da qui la storia precipita nella tragedia. A Zaccuri, in realtà, interessa comprendere come proprio lo spregio, di fatto una profanazione, inneschi negli uomini da un lato la vendetta e dall'altro il perdono. Se da una parte la profanazione dell'idolo, del simbolo - la statua dell'Arcangelo Michele, il guerriero di Dio che sconfisse il diavolo - provoca una vendetta, un assassinio, quindi una morte, quella morte, che è la seconda profanazione, quella vera, perché ciò che di sacro può essere violato è solo una vita, non fa conseguire, come pure ci si sarebbe aspettati, alcuna ulteriore ritorsione.

Il Moro, che ora ha perduto il suo Angelo, e che accetta perfino le condoglianze dei suoi assassini, comprende che nessuna vendetta potrà restituirgli non già l'onore o il potere, ma il senso stesso della propria vita, che quel figlio ai suoi occhi incarnava come una possibilità di bene; il solo gesto di bene che sapeva di avere compiuto.

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