Com’era allegra l’arte gay prima della rabbia omosex

«L'aspetto più deprimente di questa mostra», mi dice un mio vecchio amico omosessuale, napoletano come me, riferendosi a Vade retro, la rassegna di arte gay che dovrebbe (ma ancora non è sicuro) sbarcare presto a Napoli, «è la totale assenza di letizia e di magia». Quindi aggiunge sconsolato: «Come erano magici e lieti i bellissimi nudi di adolescenti dipinti ormai circa un secolo fa dal grande De Pisis, o i perversi “enfants terribles” disegnati da Cocteau, o le ammalianti fanciulle-gatto di Leonor Fini...». Infine conclude rassegnato: «Sì, com'era magica e lieta l'arte di ispirazione omoerotica prima che dal movimento gay nascesse quest'arte rozza, sguaiata, ringhiosa...».
A questo mio vecchio amico quasi tutte le opere proposte da Vade retro sembrano insomma soprattutto tristi. E in qualche caso (vedi l'ormai celebre scultura raffigurante il Papa in tanga) francamente miserabili. E le trova tali non perché offendano la Chiesa e il senso morale ma semplicemente perché a suo parere esprimono soltanto «un finto orgoglio gonfio di livore, spirito polemico e vanaglorioso vittimismo».
Dalle sue meste parole sembra quindi inevitabile dedurre che questa infelice iniziativa esprima soltanto una delle molte anime del popolo omosessuale. Soltanto una e forse, anzi certamente, la meno simpatica. È del resto noto e anche abbastanza evidente che in quel popolo si mescolano e intrecciano molte dissonanti passioni, tutte più o meno riconducibili agli orientamenti ideologici di due opposte correnti del movimento gay. La prima delle quali, aspirando al riconoscimento di una vasta gamma di diritti (giuridici, sociali, morali, culturali, economici, assistenziali e simili) assolutamente inoppugnabili, si potrebbe forse definire, cum grano salis, liberal-democratica. Mentre l'estremismo della seconda - sgorgando dal desiderio di contestare la stessa funzione simbolica della differenza sessuale, ossia di abrogare e cancellare «il maschile» e «il femminile» in quanto tali (il che è cosa ben diversa dalla rivendicazione di un certo numero di diritti, giacché pretendere di dettar legge nell'ordine del simbolico equivale a reclamare l'esercizio di una vera e propria egemonia spirituale) - appare di specie squisitamente «fondamentalista».
La rivendicazione implicita in questo miraggio - quali che siano o saranno i successi più o meno appariscenti che questa corrente potrà all'occasione conseguire formalmente sul terreno politico e legislativo, è comunque destinata a incorrere nel più derisorio degli scacchi. Giacché coi simboli non si scherza. E questo per la semplice ragione che, a dispetto di ogni nostra possibile pretesa di esserne in fondo padroni, cioè di poterne «gestire» la funzione a nostro piacimento, non siamo noi a disporre di essi ma essi a disporre di noi.
guarini.

r@virgilio.it

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