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Comunisti italiani, 70 anni di illusioni e 20 di nostalgia

Dalla fondazione del Pci nel gennaio 1921 alla "svolta della Bolognina" del '91 fino ad oggi. Fra errori e omissioni. Quando si tagliarono i ponti con lo statalismo la storia aveva già voltato pagina. La presunta "kennedyzzazione" servì solo a mascherare la via giudiziaria al socialismo

Comunisti italiani, 70 anni di illusioni e 20 di nostalgia

Che cosa rimane oggi del comunismo italiano? La domanda è d’obbligo, considerando che quest’anno cade il novantesimo anniversario della sua nascita. Per rispondere pensiamo sia opportuno mettere in luce alcuni fondamentali caratteri che per decenni hanno costituito il perno della sua ragion d’essere, per poi naufragare nel mare sterminato di tutti i fallimenti che la storia mette in opera continuamente.

Ricordiamo innanzitutto che con la scissione di Livorno - 21 gennaio 1921 - i comunisti italiani davano vita alla sezione italiana dell’Internazionale comunista convinti che fosse possibile attuare anche nel nostro Paese una rivoluzione in grado di instaurare la dittatura del proletariato e la statalizzazione integrale dell’economia. Animati dalla granitica convinzione marxista che dava per certo il crollo ineluttabile del regime capitalista, essi sottovalutarono il fascismo - pur combattendolo strenuamente - perché lo considerarono un epifenomeno capitalista, precisamente il suo braccio armato posto in essere per arrestare l’avanzata del movimento operaio. Una incomprensione, questa, che persistette fino alla metà degli anni Trenta e che fu solo in parte corretta quando Stalin impose ai partiti comunisti d’Europa la strategia dei fronti popolari.

Con la loro primaria partecipazione nella lotta contro il nazifascismo, i comunisti accantonarono la convinzione di un crollo imminente del capitalismo e spinsero per la piena legittimazione democratica del loro partito, ma l’operazione riuscì solo in parte a causa del legame politico e ideologico con l’Unione Sovietica. Di qui l’inevitabile doppiezza (togliattiana) che li portò a operare in modo democratico, ma anche a predicare la trasformazione della società italiana in senso radicalmente socialista. Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con molti «distinguo», essi continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Non dimentichiamo infatti che a loro giudizio Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, per cui, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, il leninismo giustificava lo stalinismo: tutti i comunisti - tranne rarissime eccezioni - erano stalinisti. Milioni di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent’anni affermato questo. Fa ridere, oggi, vedere gli ex comunisti negare queste verità o cercare di minimizzarle, inventando autonomie critiche di pensiero e di azione.

In realtà il colpo di Stato in Cecoslovacchia, la sollevazione di Berlino Est, la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruscev, la rivolta di Ungheria, la Primavera di Praga, infine le manifestazioni autoritarie, sanguinarie e imperialistiche dell’Unione Sovietica in molte parti del mondo e, soprattutto, il gigantesco fallimento dell’economia collettivista hanno irreversibilmente portato il comunismo italiano e internazionale alla crisi. Con grande fatica e grande travaglio i comunisti sono stati costretti a rinnegare Stalin; più tardi è toccato a Lenin, mentre oggi stentano ad accettare la critica definitiva di Marx. Un sofferto, lungo processo autocritico puntellato, però, da infiniti «distinguo». Sì, Stalin è stato un dittatore feroce, ma fu posto nelle condizioni di non poter fare diversamente, dal momento che l’Unione Sovietica era accerchiata dai Paesi capitalistici e la dittatura, con la conseguente pratica del terrore omicida, non può essere giudicata prescindendo da questo contesto... Sì, certo, Lenin e Stalin hanno commesso molti crimini (di fatto milioni di morti), però l’avvento della Rivoluzione d’Ottobre e la costruzione del primo Paese socialista del mondo hanno costituito un’oggettiva barriera contro lo strapotere del capitalismo, il quale è stato costretto a riformarsi in veste di welfare state dopo la crisi del 1929... Sì, l’Unione Sovietica è stata una realtà totalitaria, però grazie alla sua esistenza molti popoli del Terzo Mondo sottoposti all’imperialismo dell’Occidente hanno potuto giungere all’indipendenza nazionale.... E così via.

Questa incapacità di uscire definitivamente dall’universo stalinista è stata letale per il Partito comunista italiano perché, quando se ne è liberato, la storia aveva già voltato pagina. Soltanto in Italia vi è stata l’anomalia di una sinistra che ha visto la supremazia del partito comunista sul partito socialista e ciò spiega perché non vi sia stata alcuna Bad Godesberg, vale a dire una vera socialdemocratizzazione, e perché questa persistente anomalia sia poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era irrimediabilmente avversa a ogni ratio e a ogni ethos liberali. Di qui l’insorgenza del riformismo craxiano contro l’abbraccio amoroso fra le due Chiese e il «duello a sinistra» fra comunisti e socialisti, terminato con la criminalizzazione di Craxi.

Non possiamo dimenticare che la «svolta della Bolognina» avvenne dopo la caduta del Muro di Berlino e che l’abbandono ufficiale del comunismo fu ratificato solo due anni più tardi, nel 1991, quando non era più possibile occultare la catastrofe del «socialismo reale». I comunisti italiani, pur rivendicando, del tutto giustamente, l’eroismo, l’abnegazione e l’indubitabile valore di molti suoi dirigenti e militanti, sinceramente dediti all’avanzamento delle classi subalterne, avrebbero dovuto fare una piena, franca e irreversibile autocritica del loro passato, riconoscendo che per settant’anni erano sempre stati, di fatto, dalla parte del torto. Si inventarono invece un’impossibile kennedyzzazione (Partito democratico), passando - con Tangentopoli - dalla via italiana al socialismo alla via giudiziaria al socialismo. In tal modo essi confermarono la loro persistente mentalità golpista che, fin dalla nascita, non li aveva mai abbandonati (nel 1921 avrebbero voluto «fare come in Russia», dove con un colpo di Stato 25mila militanti bolscevichi di impadronirono del potere, decidendo - per settant’anni - come doveva essere la Russia per tutti coloro che vi abitavano: 140 milioni di persone!).

Che cosa rimane oggi del comunismo italiano dopo la vittoria planetaria del capitalismo? Rimane una socialdemocrazia che non ha il coraggio di riconoscersi come tale - onde mantenere sempre, per i suoi seguaci, l’oscuro e demagogico richiamo del «totalmente altro» -, una sorta di radicalismo culturale di massa (come aveva profetizzato quarant’anni fa Augusto Del Noce), una volontà di potere non accompagnata da un convincente progetto politico e la convinzione, assurda, che sia possibile uscire indenni dal proprio passato senza pagare alcun prezzo per tutti gli errori commessi.

Purtroppo la storia non fa sconti.

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