Controcultura

Confessioni di un eroe borghese tra due inferni

Cinzia Romani

Mentre le masse asiatiche emergenti immiseriscono le borghesie occidentali, esce un saggio autobiografico di Sándor Márai, Volevo tacere (traduzione di Laura Sgarioto), che stupisce per la bruciante attualità, consolidando l'idea secondo cui un grande scrittore - Márai figura nell'alto novero di Joseph Roth, Stefan Zweig e Robert Musil - è, prima di tutto, un classico. E nella presente stagione di annichilimento della classe media europea, il senso di umiliazione che egli descrive qui, parlando della sua amata Ungheria natale, prima invasa dai nazisti, nel 1944, e poi sottomessa dai sovietici, appartiene subito al lettore.

«Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso», apre così questo terzo volume delle Confessioni di un borghese, scritto tra il 1949 e il 1950, quando Márai e la moglie Lola emigrarono in America. Una guida all'inferno, dunque, ritenuta dispersa e tessuta di ricordi e fatti storici. Anche se «raramente l'uomo contemporaneo si fa cogliere preparato dal momento storico: il più delle volte scopriamo che nel mondo qualcosa è irrimediabilmente giunto alla sua fine mentre siamo in pigiama», scrive l'autore, suicida nel 1989 a San Diego. Le passeggiate budapestine lungo i Bastioni, dove nei bei palazzi si gode l'atmosfera dei mobili antichi, perdono serenità quando da Radio Vienna «zampilla la fragorosa fanfara della musica militare tedesca»: è il 1938 e Hitler fa il suo ingresso nella capitale degli Asburgo.

Nel giorno dell'Anschluss, Márai, seduto a un tavolo da refettorio di assi di rovere, comprato in un antico convento dell'Alta Ungheria, scrive articoli alla moda per la borghesia magiara. E prova una strana angoscia. «Avevo il vago sospetto che fosse accaduto un grosso guaio nel mondo», riflette. Chiedendosi «se il sentimento nazionale abbia ancora una qualche legittimità», egli non rinuncia all'ideale nazionale ungherese: «Per me è come le tabelline».

La «liberazione» all'ombra della bandiera rossa, con il livore comunista ostile al merito, gli fa venire in mente il gioco infantile delle sedie: i giocatori sono sempre diversi, ma il congegno della burla è identico.

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