Cronache

"Conosco i piedi degli altri come le mie scarpe"

Sandro Ianuà ha clienti da tutto il mondo, anche inglesi e americani. Boom delle vendite online

"Conosco i piedi degli altri come le mie scarpe"

Prima o poi, potrà capitare che vi farà le scarpe. E se mai dovesse capitare, rassegnatevi. O, meglio meravigliatevi. Perché da lui, viene il mondo, inglesi in testa, a farsele fare. Lui è Sandro Ianuà, 53 anni, e qui siamo a Torre San Patrizio, poco lontano da Fermo, nel cuore dello storico distretto calzaturiero delle Marche. Quella del calzaturificio «Due Leoni» è una storia di passione, di voglia di fare, una storia che comincia con Giovanni, il padre di Sandro, che al lavoro in un laboratorio dell'epoca, il «Leone Shoes», decide, 50 anni fa, di mettersi in proprio e di aprire una propria bottega artigianale. Guardando il pacchetto di sigarette che di solito fuma, aggiunge un leone al suo logo, ci mette in mezzo la G di Giovanni, registra il nuovo marchio e intraprende l'avventura tutta sua, cominciando a far calzare le sue creazioni ai piedi della gente.

E oggi che il padre non c'è più, è Sandro a mandare avanti con la filosofia, l'inventiva e la fantasia ricevuta in eredità, il laboratorio dei «Due Leoni». «Ed è un compito impegnativo - sottolinea Sandro Ianuà - che ci obbliga, ogni giorno, a confrontarci con il mercato, ma anche e soprattutto a non indietreggiare mai sul fronte della qualità dei pellami e delle finiture, per non tradire quegli obbiettivi di lavorazione che mio padre si era prefissato: fare scarpe italiane, ottime scarpe italiane, a prezzi contenuti». In bottega con Sandro c'è la sorella Donatella, ma la struttura dei «Due Leoni» è articolata in una filiera che, di fatto, dà lavoro ad una trentina di persone.

«Sono collaboratori specializzati ed esperti che lavorano con noi e per noi da trent'anni e che completano, sempre e rigorosamente, sotto il nostro controllo costante, i passaggi della nostra lavorazione blake rapid con fasi di lavoro esternalizzate: un laboratorio, per esempio, esegue taglio e orlatura, un altro fa il montaggio etc. Diciamo che con questa filiera di lavorazione riusciamo a stare al passo con la velocità e le alternanze che il mercato impone e a mantenere prezzi competitivi, tenuto conto che possiamo produrre in media anche cinquanta paia di scarpe al giorno».

Ma il pellame, i modelli, i gusti dei clienti? Come si riesce a combinare questo mix di variabili? «A mio parere occorre essere, oltre che bravi artigiani, anche degli scrupolosi osservatori dei mutamenti perché bisogna interpretare il mercato, capire cosa chiede e sforzarsi di proporre sempre qualcosa di nuovo, anche magari di audace, per tener desti l'attenzione e l'interesse, altrimenti si precipita nella routine. In buona sostanza noi facciamo ricerca prima di definire i nostri campionari stagionali, considerato che, se le donne hanno sempre bisogno di scarpe differenti e in sempre in maggiore quantità, l'uomo d'oggi, l'uomo che sa vestire, ha molte pretese. Giuste pretese di avere ai piedi calzature, eleganti e comode. Scarpe per ogni occasione. La controprova di quanto affermo la stiamo proprio avendo, una volta di più, all'Artigiano in Fiera, a Milano, dove, non solo rinnoviamo, ogni giorno, un rapporto con una clientela affezionata, ma stabiliamo nuovi legami con chi, per la prima volta, nel nostro stand o sulla vetrina online di Artimondo ha avuto modo di scoprire le nostre scarpe e ne vuole testare la qualità. E' pur vero che da quando abbiamo aperto il negozio online su Artimondo gli ordini sono lievitati: spediamo ovunque in Italia e stiamo cominciando a spedire in Europa».

Le scarpe inglesi e, in tempi più recenti anche quelle americane, hanno comunque conquistato un loro mercato ben definito, secondo lei hanno qualcosa in più rispetto alle scarpe italiane?

«Vuole la verità? Un tempo gli artigiani di Northampton erano i numeri uno per le forme delle scarpe, tanto che mio padre negli Anni 70 se ne andò là con un amico modellista per capire e carpire i loro segreti, ma oggigiorno sono loro, gli inglesi e gli americani, che vengono da noi, nel nostro distretto calzaturiero marchigiano, a imparare. E in più, particolare non di minimo conto, le nostre scarpe sono interamente fatte in Italia, mentre certi brand altisonanti le fanno fare in Pakistan o a Santo Domingo. Non dimentichiamo che in una scarpa hai il 49 per cento di manodopera e il 51 per cento di materiale. Quindi bisogna mettersi capacità e buon gusto. E difendere queste nostre caratteristiche con una registrazione del marchio che recentemente abbiamo esteso a nove Paesi, Cina compresa».

Non è problematico acquistare online una scarpa? «No, basta sapersi conoscere e riconoscere fra venditore e acquirente. Mi spiego meglio, io ho cominciato a stare in bottega da mio padre a 19 anni, la mia famiglia conosce e riconosce i piedi altrui come le proprie tasche, non solo perché la struttura del piede ha caratteristiche e dimensioni standard ma perché ad una certa lunghezza corrisponde generalmente una certa larghezza, a meno che ci si trovi davanti a problemi morfologici. Così interrogando e studiando il nostro potenziale cliente riusciamo a soddisfarlo.

E poi, a completare il quadro di una scarpa perfetta, oltre all'esperienza ci sono i materiali e le scelte di realizzazione: i calf primo fiore che vengono tamponati a mano, i camosci con trattamento idrorepellente, caucciù naturale sotto, e la scarpa, anche la desert boot, foderata in pelle con la soletta in pelle intera con lattice».

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