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Contro il logorio dell'ombrello moderno

Contro il logorio dell'ombrello moderno

Se permettete mi presento: sono uno di quelli che gira senza ombrello. E se per caso mai mi vedrete con un ombrello in mano, sappiate che comunque lo dimenticherò da qualche parte, inevitabilmente. Io sono uno di quelli che corre sotto la pioggia facendo slalom tra le gocce, perché una volta ho letto sul giornale che esiste una teoria matematica che permette di schivare la pioggia, con tanto di grafico annesso. E siccome lo ha scritto il giornale io ci credo. E zigzago. Ma preciso: io non sono uno di quelli che gira senza ombrello perché mi piace, anche perché ho scoperto che nonostante lo slalom l'acqua la si prende lo stesso, mannaggia al grafico. E dunque mi bagno, quando piove. Io sono uno di quelli che gira senza ombrello per il semplice motivo che non esistono più gli ombrelli di una volta. E a me questa cosa non piace.

Fateci caso: ormai sono dappertutto, siamo circondati. Sono sulle scale della metropolitana, nei mercatini più «ini» della città, fuori dai negozi ma anche dentro, perché gli ombrelli sono diventati perfino oggetti da centro commerciale. O da punti vendita, quelli dove entri per comprare una pila (perché lì costa meno) e ne esci stravolto con una serie di oggetti inutili acquistati a 1 o 2 euro. Tipo la fontana finta con il Budda che agita un ventaglio che sta così tanto bene sulla tua scrivania d'ufficio ed è soprattutto molto utile. E per lo stesso concetto l'utilità - naturalmente esci con un ombrello comprato a non più di 5 euro (il massimo consentito), visto che è così carino e quantomeno sai già che avrai risparmiato soldi quando lo dimenticherai. Già, perché il vero problema è che gli ombrelli sono diventati cheap. Colorati, divertenti, anche alla moda per carità. Ma irrimediabilmente cheap.

È questo il punto, cari lettori. Sono nato in un'epoca in cui l'ombrello era nero, al massimo grigio e marrone, bianco se si voleva abbinare al vestito di una signora. Sono nato nell'epoca in cui gli ombrelli erano grandi, ed erano come i televisori: ne compravi uno e per anni sapevi che lui era lì, indistruttibile. Fuori dalla porta di casa, per servirti al primo scroscio. Sono nato nell'epoca in cui l'ombrello era il corollario della bombetta di John Steed, quello del telefilm Agente Speciale, uno che faceva dell'eleganza un'arma di seduzione. Adesso invece l'ombrello si cambia, più o meno come i fazzoletti. Si rompe, soprattutto. Lo trovi perfino all'Ikea, ed è così banale che perfino lì - nella patria degli Skogsta (qualsiasi cosa siano) - lo chiamano così: ombrello. Tanto sanno che si smonterà in un amen.

Così io mi rifiuto, non lo compro, non lo voglio. Zigzago bagnato ricordando i tempi che furono. Perché, che diamine: vorrei un ombrello, non un similare componibile. Evito insomma i tempi dell'ombrello cafone, quello che continua prima o poi ad entrarti nell'occhio (si trova sempre nella vita una signora armata di ombrello appuntito ad altezza iride) ma adesso lo fa sgraziatamente. Con poco stile, conciato com'è, già mezzo rotto appena lo compri. Ed anche se una collega per invogliarmi mi ha fatto sapere che dal Giappone arriverà quello tecnologico (si apre al contrario così la pioggia poi cade fuori), io insisto: ne voglio uno elegante, solido, che va con tutto.

Uno che si intoni perfettamente con il suo portaombrelli. Perché tanto lì lo lascio: volete mica che lo perda?

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