Politica

Il controsenso dell’intellettuale dipietrista

Il peggio sembra non aver mai fine. È questo il commento a caldo che ci viene in mente leggendo che gli intellettuali di sinistra vengono attratti da Antonio Di Pietro. Gianni Vattimo, Nicola Tranfaglia, Giorgio Pressburger, tanto per citarne alcuni, sarebbero la punta di un immenso iceberg culturale che sembra stia attraccando nel porto del partito dell’ex pubblico ministero. Sarebbe insomma l’antica attrazione fatale del vuoto. Questi intellettuali ex comunisti sono stati nella nostra storia repubblicana un’area culturale forte e diffusa nelle università, nei giornali, nelle case editrici, nell’intera vita politica della sinistra e della società italiana per oltre quarant’anni. La loro organicità al Pci di Togliatti e di Berlinguer è passata indenne, salvo autorevoli eccezioni, attraverso l’invasione ungherese del ’56 e la Primavera di Praga del ’68, il terrorismo brigatista degli anni ’70 e l’antisocialismo a tutta birra degli anni ’80 quando Bettino Craxi era il demone da battere. Tutto dunque poteva accadere tranne che venisse messa in discussione l’organicità o, per meglio dire, la fedeltà al vecchio Pci. Quando, però, il comunismo internazionale è crollato sotto il Muro di Berlino questi intellettuali organici si sono politicamente squagliati (ancora una volta con qualche importante eccezione, come Asor Rosa) lasciando la loro dirigenza politica sola sulle macerie di una folle utopia. Qualcuno, vedi Michele Salvati, si è subito trasferito armi e bagagli nel pensiero liberista e in quel gruppo di opinionisti che hanno cavalcato e ispirato il disastro del Partito democratico, vera offesa alla cultura politica, essendo poco più che un organismo geneticamente mutato, insapore ed inodore come lo abbiamo definito sin dall’inizio. Molti altri, dopo il 1989, si sono chiamati fuori da un impegno politico, confermando così ancora una volta una nostra antica convinzione, e cioè che gli intellettuali in genere seguono la politica, non l’anticipano né l’affiancano. Quando questo è accaduto la Storia li ha ricordati. Una loro nuova presenza ci fu nella famosa costituente di tremila persone del Partito democratico, ma l’inconsistenza identitaria e politica del partito di Veltroni e di Franceschini, e prima ancora di Fassino e di Rutelli, li fece subito riaffondare in un mare di silenzi complici. Ed ecco, improvvisamente, il riaffacciarsi di alcuni tra loro nel movimento di Di Pietro, il cui partito è organizzativamente e culturalmente (nel caso specifico termine un po’ esagerato) un partito autoritario che vorrebbe fare in Italia ciò che imputa a Silvio Berlusconi. Per questi intellettuali passati da Togliatti e Berlinguer a Tonino Di Pietro è un arretramento di tali dimensioni da dirla lunga sulla loro coerenza culturale e politica. Un dato, però, accomuna le loro scelte di ieri e di oggi. La visione autoritaria e giustizialista della società, l’occupazione del potere con l’intimidazione e le doppie verità, la cultura non come elaborazione critica del sapere e della prassi politica, ma come strumento al servizio del potere sono infatti le caratteristiche costanti delle loro militanze. Ma anche nelle scelte sbagliate c’è una dignità e uno spessore culturale da rispettare.

La scelta di oggi della piazza di Di Pietro, senza che suoni offesa per nessuno, è il segno del loro declino e dell’intera sinistra italiana annegata nel riformismo generico e salottiero di un Partito democratico allo sbando.

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