Cronache

La Corte s’immerge nella Vìgata prima di Montalbano

Da domani «La concessione del telefono», testo tratto da un’opera di Camilleri: una commedia ricca di suspence

«A Sua Eccellenza Illustrissima Vittorio Parascianno, Prefetto di Montelusa. Vigàta li 12 giugno 1891»: è l'ossequiosa e apparentemente innocua intestazione della lettera di Filippo Genuardi, dove la maggior malizia immaginabile sembra stia nell'identificare a colpo sicuro i luoghi di Andrea Camilleri. E invece l'incipit di questa lettera causerà guai a non finire al suo ignaro autore. È La concessione del telefono di Andrea Camilleri, che debutta al Teatro della Corte domani per la regia di Giuseppe Dipasquale e resterà in scena fino al primo aprile. Prodotto dallo Stabile di Catania, lo spettacolo è interpretato da Francesco Paolantoni, Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina.
Vigàta, fine '800: Filippo Genuardi decide di richiedere l'attivazione di una linea telefonica a uso privato e, a questo scopo, indirizza tre lettere al prefetto di Montelusa, rendendosi però colpevole di un ferale scambio di consonanti: «Parascianno» anziché «Marascianno». L'errore sarà fatale e scatenerà una ridda di malintesi che metteranno in subbuglio Prefettura, Questura, Pubblica Sicurezza, la Benemerita Arma e perfino il parroco del paese, nonché, ovviamente, il capomafia locale. Un pizzico di complicazioni familiari (Filippo è invaghito della giovane suocera) ed ecco una commedia insieme divertente e traboccante di suspence. La lingua è il Siciliano di Camilleri, un lessico di atavica memoria, frutto di una attenta ricerca letteraria e arricchito da fantasiose invenzioni dello scrittore, con esiti potentemente espressionistici.
L'adattamento dall'omonimo romanzo è stato curato dall'autore e da Giuseppe Dipasquale, ex allievo di Camilleri all'Accademia Silvio D'Amico: con spirito pirandelliano, Camilleri ha consegnato i personaggi del suo libro al regista senza tiranneggiarne le scelte, ma lavorando in sintonia con lui. Ben nove stesure hanno preceduto quella definitiva: «Metà del romanzo è scritto in forma epistolare, quindi difficile da rendere in scena» spiega Dipasquale. «Alla fine, proprio il mondo cartaceo delle lettere, straniante ma denso di fatti, è diventato il segno forte dello spettacolo ed evoca concretamente in scena l'ambiente, non fisico ma metaforico, in cui Camilleri ambienta le sue storie. Da qui la scelta scenografica di una Vigàta sospesa tra faldoni ottocenteschi zeppi di incartamenti, da cui escono personaggi imprigionati nelle carte».

Ecco che la prospettiva dello spettacolo si amplia, si materializza la «risposta» dello stato centrale all'incalzante richiesta di risolvere i problemi del Mezzogiorno: tonnellate di carta prodotta dalle Commissioni d'Inchiesta; di azioni concrete, nemmeno l'ombra.

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