Cultura e Spettacoli

Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà

Dal secondo dopoguerra a oggi tutti coloro che in Italia si sono riconosciuti nelle idee del liberalismo e della democrazia liberale hanno dovuto combattere dure battaglie in difesa dello Stato di diritto contro vari tentativi di coartarlo o addirittura di sopprimerlo (basti pensare al lungo Sessantotto: lungo perché durato parecchi anni). Questa difesa dello Stato di diritto, nonché della libertà degli individui e della società civile, ha conosciuto in Italia una fase molto drammatica negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, quando i movimenti politici di sinistra proclamarono la necessità di una «profonda trasformazione economico-sociale» e politica: una trasformazione così profonda che avrebbe radicalmente mutato il volto del nostro Paese in senso autoritario.
Su questa difficile e tormentata fase della nostra storia, e sulle battaglie che i liberali vi impegnarono, si trovano analisi e materiali di prim’ordine nei numerosi saggi che compongono il grosso volume, ancora fresco di stampa, edito da Rubbettino, I liberali italiani dall’antifascismo alla repubblica (a cura di B. Berti, E. Capozzi, P. Craveri, pagg. 910, euro 36).
Molto spazio viene giustamente dedicato in questo libro al Partito d’azione (che fu un po’ la punta di diamante dello schieramento di sinistra) e all’atteggiamento che i liberali assunsero verso di esso. Direi che resta emblematica, a questo proposito, l’aspra discussione che si svolse nel 1945 fra l’allora presidente del Consiglio Ferruccio Parri e il filosofo Benedetto Croce, circa la valutazione che si doveva dare sull’Italia prefascista e sul suo rapporto con l’Italia postfascista: si doveva sostenere la continuità o la discontinuità, l’omogeneità o la diversità e anzi la rottura? A favore della diversità e della rottura si pronunciò senz’altro l’azionista Parri, che il 26 settembre dichiarò in un discorso alla Consulta: «Tenete presente: da noi la democrazia è appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo». E di fronte alle rumorose interruzioni e ai forti dissensi suscitati da questa sua affermazione, Parri aggiunse: «Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi. Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta... Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali \». Il giorno dopo Croce ribatté con grande forza a Parri. «Egli ha detto - affermò il filosofo liberale - che prima del fascismo l’Italia non aveva avuto governi democratici. Ma questa asserzione urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1861 al 1922, è stata uno dei paesi più democratici d’Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa alla democrazia». Certo, aggiunse Croce, quella italiana fu una «democrazia liberale come ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe, e apre la via alla dittatura e ai dispotismi».
Croce esprimeva così tutta la distanza sua e dei liberali da Parri e dal Partito d’azione. Questi ultimi, infatti, erano sostenitori di un regime ciellenistico, che non dava nessuna garanzia sulla legalità della sfera pubblica e dei rapporti politici, e che non avrebbe certo posto fine all’inaudita ondata di violenze che si era abbattuta sull’Italia settentrionale all’indomani della liberazione, con innumerevoli episodi di «giustizia» sommaria contro fascisti o presunti tali. Inoltre gli azionisti esigevano un’epurazione radicale contro tutti coloro che avessero collaborato in qualche modo col fascismo o avessero occupato cariche, piccole o grandi, nell’Italia fascista: il che significava epurare una grossa parte del popolo italiano. Infine il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di «rinnovamento sociale e politico» con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere «la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali», al fine di «recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale». È evidente che la realizzazione di un programma di questo tipo avrebbe richiesto (come osservò di nuovo Benedetto Croce) durissime misure coercitive, con «l’indispensabile complemento di una fedele guardia della rivoluzione, che ben s’intende che cosa sarebbe e quali altri complementi richiederebbe».
L’opposizione istituita da Parri fra liberalismo (prefascista) e democrazia (postfascista) aveva dunque un significato preciso, perché, come spiegò con durezza ma con assoluta pertinenza il filosofo napoletano, «temo che qui il Parri sia sotto l’influsso dell’uso sovietico, che si cerca di promuovere in Italia e in tutto il mondo, della parola “democrazia” (democrazia progressiva), nel senso precisamente opposto a quello di libertà, cioè come sinonimo di dittatura o di avviamento a queste cose».


A sbarrare questa strada infausta diedero un contributo di grande rilievo i liberali, i quali prima determinarono la caduta del governo Parri, e poi assicurarono a De Gasperi una collaborazione politico-economica di notevolissimo valore (basti pensare all’opera di Luigi Einaudi).

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