Politica

Così le intercettazioni moltiplicano i reati

Ecco perché vanno regolamentate. Il paradosso delle spiate: per incastrare gli indagati li si lascia agire a lungo indisturbati

Uno degli aspetti relativi alle intercettazioni che non è stato ancora sufficientemente considerato nell’attuale dibattito, e che invece è da prendere molto sul serio, ri­guarda due problemi fra loro complementari. Il primo attiene alla valanga di carte che di solito scatu­risce dalla­quantità e dalla abnorme durata delle intercet­tazioni che siano state disposte in un determinato proce­dimento. Si tratta- è bene lo si sappia- di decine di miglia­ia di pagine, a volte- nei procedimenti con molti indagati - centinaia di migliaia di pagine che all’improvviso ven­gono scaraventate sulla scrivania del giudice, dopo mesi e mesi di ascolto, con l’aspettativa e la pretesa che egli riesca in pochi  tutelare. Ebbene, è seriamente pensabile che un magistrato, per quanto solerte e laborioso, possa leggere, valutare, distinguere in un tempo spesso assai ridotto tutta quella mole di documenti cartacei? Che possa cioè deliberare sulle richieste avanzate dal pubblico ministero con coscienza adeguatamente informata? La risposta è una soltanto: no, non è pensabile in quanto oggettivamente impossibile. In simili casi, che sono peraltro frequenti, al giudice non resta altro che o sfogliare rapidamente tutte quelle carte, cercando di barcamenarsi alla meglio, o, peggio, affidarsi alla lettura che ne abbia già data il pubblico ministero che invece ha avuto un tempo più lungo per leggerle. In entrambi i casi, un errore grave ed una ferita inferta alla logica stessa del diritto e del processo e perciò, in definitiva, alla libertà delle persone da giudicare. Il secondo problema riguarda invece un profilo diverso e molto pericoloso per la stessa convivenza civile oltre che per i giudici stessi. Mi riferisco ai casi in cui le intercettazioni, disposte per lunghi o lunghissimi periodi di tempo, mettano gli inquirenti davanti ad una scelta che non è eccessivo definire «tragica». Infatti, può accadere - e accade - che essi si accorgano, strada facendo, che un determinato indagato stia organizzando un determinato reato, ma che questo reato sia strumentale alla commissione di un altro e più grave delitto e che perciò l’investigatore sia indotto - comprensibilmente - ad attendere che il primo illecito si consumi allo scopo di intervenire alla vigilia della commissione del secondo. Si ipotizzi, per spiegarsi meglio, che una associazione criminale, allo scopo di commettere un grave delitto di rapimento a scopo di estorsione, pensi bene, prima, di rubare un’auto di cui servirsi per il rapimento. Ebbene, la domanda per nulla inutile, suona: chi o quale norma conferisce agli inquirenti il potere di attendere, pur essendone perfettamente a conoscenza, che un reato sia commesso (pur potendo evitarlo), allo scopo, sia pure nobile, di perseguire i colpevoli per un altro illecito anche se più grave? Permettere il furto per evitare l’estorsione? Anche in questo caso, la risposta è una soltanto: nessuno può conferire tale potere e infatti nessuna norma lo prevede perché nessuna norma potrebbe tramutare in senso lecito ciò che è illecito. Eppure, accade. Come fare allora ad evitare che i giudici siano costretti a commettere a loro volta reati (per esempio, quello di favoreggiamento o di omissione di atti d’ufficio) pur di intercettare a tutti i costi? E vada pure, forse, se si tratti di acciuffare un Totò Riina o un Tano Badalamenti; negli altri casi, limitare nel tempo la durata delle intercettazioni serve non solo a salvare la libertà di tutti noi, ma anche quella degli stessi magistrati ed investigatori. E non è poco.

giorni o poche settimane ad emettere un provvedimento dotato di senso giuridico. In certi casi poi tale provvedimento può anche riguar­dare la libertà personale di alcuni degli indagati, vale a dire il bene più alto e delicato che il diritto debba

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