Cultura e Spettacoli

Così il «Quarto Stato» fece bancarotta

Così il «Quarto Stato» fece bancarotta

Non avrà il carisma enigmatico della Gioconda leonardesca, non i sostrati allegorici o simbolici di capolavori botticelliani quali La Primavera o La calunnia di Apelle; ma la grande tela che Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) completò nel 1901, Il Quarto Stato, suggerisce implicazioni problematiche, anzi drammatiche, tali da indurre Massimo Onofri a perlustrare in profondo quel capolavoro custodito nella Galleria d’Arte Moderna di Milano. Ed è una vera e propria «inchiesta» - temeraria, brillante, sagace - questo suo libro: Il suicidio del socialismo. Inchiesta su Pellizza da Volpedo (Donzelli, pagg. 152, euro 19).
Il libro comincia dall’epilogo: dal suicidio dell’artista, che s’impicca nel suo studio, irrimediabilmente prostrato dalla perdita della giovane moglie Teresa (consunta da «febbri puerperali») e del figlioletto, l’unico maschio, nato morto. Postulando, sia pur con discrezione, che un «destino» determini con segreta fermezza in ciascun punto la vita di un uomo, Onofri rilegge in cerca di conferme Il Quarto Stato e una serie di opere che o preparano nei temi e nella tecnica la maggior tela o le risultano funzionali nel concetto (non di rado ossessivo) che le ispira. E il quadro in cui Pellizza, socialista turatiano, intendeva rappresentare senza risvolti ambigui la marcia inarrestabile dei contadini, degli oppressi reclamanti in folla non più che la giusta mercede e la giusta considerazione sociale, quel quadro genera invece fondati sospetti di un doloroso pessimismo, agli antipodi della solare, o addirittura gioiosa, rivendicazione animata dall’Idea socialista.
Onofri identifica Teresa nella donna che, con un bimbo in braccio, affianca i due personaggi maschili alla guida del corteo (corteo o «fiumana», come nel titolo della tela del 1895-98, per più versi preparatoria del Quarto Stato, che si trova a Brera). In evidenza alla testa del gruppo si manifesterebbe dunque l’entità familiare, il nucleo che come per sineddoche (il termine significa: la parte per il tutto) sintetizza l’armoniosa, concreta positività dell’immensa «famiglia» socialista. E quanto la famiglia sia al centro delle cure di Pellizza, lo si ricava dalle sue lettere, dai diarî e da vario altro materiale. Se volle Teresa in moglie, è perché l’artista contava che le virtù di lei sarebbero state di valido aiuto ai proprii genitori.
Onofri accosta in parallelo questa proiezione simbolica (dilatazione dal privato al politico) della famiglia a quella che, all’incirca nei medesimi anni, caratterizza il mondo del Pascoli (un altro socialista umanitario) e di riflesso la sua poesia. Nel nucleo familiare pascoliano il trauma si produce allorché Ida, una delle due sorelle, prende marito; il caso di Pellizza è più terribile: alla morte precoce (1889) della sorella Antonietta erano seguiti i lutti che rammentavo. Se il Pascoli reagisce al “tradimento” di Ida con un “suicidio” graduale - l’eccesso di alcolici, donde l’esiziale cirrosi epatica -, il suicidio di Pellizza sembra invece un atto brusco, inopinato. Ma davvero fu senza preavvisi? Anche dove sembra che inneggino alla vita, molte fra le sue opere si radicano, all’opposto, in una psicologia amara e cupa. L’inchiesta di Onofri ricorrendo (con cautela) a chiavi freudiane, illustra la fatalità del suicidio di Pellizza, che la scomparsa dei più amati familiari spinge a punire se stesso, unico “oggetto” rimasto in campo. E nell’estremismo irrevocabile del suo gesto è come se col Superego familiare morisse, suicida, anche l’Idea che Pellizza aveva scopertamente coltivato e promosso.
Già: il socialismo. Onofri pone a confronto il tema del Quarto Stato e la vicenda del protagonista del Metello di Pratolini. Se però l’eroe del romanzo finisce col riconciliare di buon umore i cómpiti familiari e l’ideale, tutt’altro è l’itinerario di Pellizza, che al Quarto Stato arriva attraverso figurazioni di inguaribile tristezza, disincanto, sfiducia: basti pensare a Lo specchio della vita, a cui lavora mentre attende anche alla citata (irruenta, pericolosa) Fiumana. Nella sua forma definitiva, Lo specchio della vita non è che una sfilata di pecore, sostituito da una pecora in più - nera - il pastorello accolto in una versione provvisoria. Il gregge simboleggia l’umanità oppressa, ma quando Pellizza mirerà a glorificarla, appunto nel Quarto Stato, a un’osservazione minuta non sfuggono i presagi di sconfitta disseminati nel quadro: e la calma della folla in marcia, anziché esprimere la sicurezza dei votati alla vittoria, potrebb’essere appena la calma che precede l’intervento della forza pubblica, cioè la dispersione e la sconfitta (del corteo, del gregge).
Tanto affiora a una disamina che non si limiti alle apparenze. L’icona del Quarto Stato servì, a lungo e in auspicio, a saldare al socialismo dei pionieri i tentativi di rinnovamento che, dopo la parentesi fascista, ebbero l’apice spregiudicato nell’età di Craxi. Una riproduzione della grande tela resistette per qualche tempo, già scioltosi il Psi, nella storica e ormai svuotata sede romana di via del Corso. Icona durevole, essa venne a tormentare, in carcere, i sonni del socialista Vito Gamberale, una delle non poche vittime innocenti della mattanza di Mani Pulite.

Quando al socialismo italiano non restò altra soluzione che il suicidio.

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