Controcultura

Così Roma assolse la sua missione

"Raccolse le civiltà che l'avevano preceduta, le fuse e le diffuse"

Così Roma assolse la sua missione

Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni. E il suo atto di decesso fu segnato non dalla deposizione di Romolo Augustolo, ma dalla adozione del Cristianesimo come religione ufficiale dello stato e dal trasferimento della capitale a Costantinopoli. Con questo duplice avvenimento comincia, per Roma, un altro capitolo.

La maggioranza degli studiosi sostiene che questa catastrofe fu provocata soprattutto da due fatti: il Cristianesimo e la pressione dei barbari che calavano dal Nord e dall'Oriente. Noi non lo crediamo. Il Cristianesimo non distrusse nulla. Si limitò a seppellire un cadavere: quello di una religione in cui ormai non credeva più nessuno, e a riempire il vuoto ch'essa lasciava. Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti; ma in quanto fornisce una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l'aveva fornita. Ma quando Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un'altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia; anzi, il contrario. Tertulliano, che ci vedeva chiaro, lo scrisse apertamente. Per lui, tutto il mondo pagano era in liquidazione. E quanto prima lo si sotterrava, tanto meglio sarebbe stato per tutti.

Quanto ai nemici esterni, Roma era abituata da mille anni ad averne, a combatterli e a vincerli. I visigoti, i vandali e gli unni che si affacciavano alle Alpi non erano più feroci ed esperti guerrieri dei cimbri, dei teutoni e dei galli che Cesare e Mario avevano affrontato e distrutto. E nulla ci permette di credere che Attila fosse un generale più grande di Annibale, che vinse dieci battaglie contro i romani, eppoi perse la guerra. Solo, trovò a contendergli il passo un esercito romano composto esclusivamente di tedeschi, compresi gli ufficiali, perché Gallieno aveva proibito il servizio militare anche ai senatori. Roma era già occupata e presidiata da una milizia straniera. La cosiddetta «invasione» non fu che un cambio della guardia fra barbari.

Ma anche la crisi militare non era che il risultato di una più complessa decadenza, innanzi tutto biologica. Essa era cominciata dalle classi alte di Roma (perché, come dicono a Napoli, «il pesce comincia a puzzare dalla testa») con l'allentamento dei vincoli familiari e il diffondersi delle pratiche malthusiane e abortive. La vecchia orgogliosa aristocrazia, ch'è stata forse la più grande classe dirigente che il mondo abbia visto, e che per secoli aveva dato l'esempio dell'integrità, del coraggio, del patriottismo, insomma del «carattere», dopo le guerre puniche, e più ancora dopo Cesare, cominciò a dar quello degli egoismi e del vizio. Le famiglie che la componevano furono, sì, anche decimate dalle guerre, dove i loro rampolli cadevano generosamente, e dalle persecuzioni politiche, ma soprattutto si estinsero per penuria di figli. Grandi riformatori come Cesare e Vespasiano tentarono di rimpiazzarla con dinastie più solide di borghesi provinciali e campagnoli. Ma essi si corrompevano a loro volta, e la seconda generazione era già di «gagà», rammolliti che non finivano a Cinecittà, solo perché Cinecittà ancora non c'era.

Questo cattivo esempio fece presto a dilagare, e già al tempo di Tiberio furono previste sovvenzioni ai contadini per incoraggiarli a fare figli. Evidentemente, a parte la falcidia delle pestilenze e delle guerre, anche la campagna faceva del malthusianesimo e si spopolava. Pertinace offriva gratuitamente le fattorie abbandonate a chi s'impegnava a coltivarle. E in questo vuoto materiale, conseguenza di quello morale, s'infiltravano gli stranieri, specie d'Oriente, in dosi così massicce che Roma non fece in tempo ad assorbirli e a rifonderli in una nuova e vitale società. Questo processo di assimilazione funzionò fino a Cesare, che chiamò i galli a partecipare alla vita dell'Urbe, facendone dei cittadini, dei funzionari, degli ufficiali e perfino dei senatori. Ma esso diventò impossibile coi germani, molto più refrattari alla civiltà classica, e si risolse in una catastrofe con gli orientali che vi s'insinuarono, sì, ma per corromperla.

Di tutto questo, la conseguenza fu, sul piano politico, il dispotismo cui Tiberio diede l'avvio, e che solo in alcuni casi fu «illuminato». Ma è sciocco prenderlo a bersaglio della critica e addossargli le colpe della catastrofe. Il dispotismo è sempre un malanno. Ma ci sono delle situazioni che lo rendono necessario. Roma era in una di queste situazioni, quando Cesare lo instaurò. Bruto, che lo uccise, se non era un volgare ambizioso, era certamente un povero diavolo che credeva di guarire il gran malato eliminando non il bacillo, ma la febbre. Anche l'esperimento socialista e pianificatore di Diocleziano fu un malanno e non risolse nessun problema. Ma le circostanze lo imponevano come ultimo disperato rimedio.

A guardare le cose dall'alto e a voler dare loro una ragione, si può dire che Roma nacque con una missione, l'assolse, e con essa finì.

Questa missione fu di raccogliere le civiltà che l'avevano preceduta, la greca, l'orientale, l'egiziana, la cartaginese, di fonderle e di diffonderle in tutta l'Europa e il bacino del Mediterraneo.

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