Così sul Libano il pacifismo rosso depone le armi

Bruno Fasani

In questi giorni sono alle prese con un problema di logica. Alla base del mio imbarazzo due risoluzioni Onu, la 1511 dell’ottobre 2003 e la 1701 dell’11 agosto scorso. Due risoluzioni con due identici esiti operativi. Di diverso, il colore politico dei governi coinvolti, quello di Berlusconi nel 2003 e quello di Prodi nel 2006. Ma diversa soprattutto la reazione popolare. E qui comincia il mio problema di logica.
Non occorre scomodare la memoria, per ricordare cos’è accaduto tre anni fa, quando il governo di centrodestra decise di rispondere alla richiesta dell’Onu di inviare i soldati italiani. Furono mandati in piazza gli studenti, gli operai. I sindacati misero in stand by il ventiduemillesimo sciopero, per gridare il loro no alla guerra, mentre i politici dell’opposizione parlarono di un’Italia che violava i principi della Costituzione. Dal Brennero a Pachino, passando per Assisi, come in una straordinaria stagione micologica, spuntarono sui balconi le bandiere arcobaleno. Ci furono perfino preti che, con le bandiere, addobbarono l’altare, convinti che anche Gesù Cristo si fosse alleato con il centrosinistra contro Berlusconi. L’apoteosi dell’infamia l’avremmo registrata al ritorno dei corpi dei caduti di Nassirya, quando vi fu chi inneggiò alla resistenza irachena, finalmente vincitrice contro l’invasore italiano, amico dell’odiata America. A seguire, come in una litania claustrale senza soluzione di continuità, sarebbe arrivata la campagna elettorale per le politiche del 2006. Un refrain martellante, come in un tormentone estivo, annunciava il ritiro delle truppe dall’Irak come il peana di un’alba di pace, la cifra del nuovo corso politico, finalmente emancipato dai miasmi dei guerrafondai di destra.
Tempo solo quattro mesi, dall’arrivo al governo, e la storia si sarebbe ripetuta a parti alternate. Solo che stavolta la missione in Libano diventa «occasione storica», mentre i laudatores parlano di «Italia di serie A», e del «momento dell’Italia». L’odiato nemico Bush torna ad essere partner privilegiato, mentre D’Alema duetta dalla barca con la ritrovata Rice, nella vezzeggiante familiarità di amica Condy. Spariti i Diliberto, i Rizzo, i Pecoraro Scanio, le Menapace, tutti ormai convertiti alle armi con la colomba in canna. Spariti dalle tribune e dalle piazze i cantori della pace, quella a buon mercato, sbrodolata di dialogo, di Onlus, dei Gino Strada o dei Vitaliano Della Sala. Spariti anche i preti con le bandiere sotto la pisside, impegnati nella frescura di qualche campo scuola a far pregare i fanciulli per la riuscita della nuova missione in Medio Oriente.
Registro i fatti e la logica si ribella. Contro i media, prima di tutto, quelli che si sono prestati a far da reggicoda alle tesi colpevoliste. Era il 2004 quando Carlo Azeglio Ciampi, in visita a Budapest, così si rivolgeva ai giornalisti: «Leggete il testo della Risoluzione 1511. Leggetelo, per favore. Sono solo due paginette. Vi sono cose di estrema importanza di cui forse qualcuno di voi non si è neppure accorto».
La logica si ribella contro certo mondo cattolico, grintoso fino al punto da sembrar guerresco, più incline a subire il fascino dei politici e delle loro faziose ideologie, piuttosto che quello composto e super partes del vangelo.

Si ribella, la logica, e si interroga su un’Italia dalla memoria corta, paga di scendere in piazza o di mettere la mordacchia su comando, purché qualcuno pensi in sua vece.

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