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Cosa c’è dietro le critiche della stampa all’Orso d’oro italiano

Se i tedeschi si mettono a fare storie per l’«Orso d’oro» andato ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, vuol dire che in questo momento di noi hanno proprio le scatole piene. La stampa tedesca non ha per nulla digerito il premio assegnato agli italiani: lo Spiegel ha intitolato «Festival buono, vincitori sbagliati», scrivendo: «un film del genere questi vecchi signori lo avrebbero potuto girare anche negli anni ’60»; il berlinese Tagesspiegel si chiede se «questa Berlinale non sia stata una festa dei vecchi autori del cinema europeo», aggiungendo: «La decisione della giuria non suscita entusiasmo»; e per Die Welt la scelta dei giurati della Berlinale è stata quella di «un compromesso in favore di due vecchi naviganti che si sono azzardati su un nuovo terreno, per essere esatti un vecchio terreno con attori dilettanti come in Padre padrone».

I Taviani per un festival gremito di cinefili duri e puri come la Berlinale, rappresentano ciò che in teoria dovrebbero amare: cinema d’autore, povertà di mezzi, scandalo e provocazione delle immagini, indignazione sociale. Solo qualche anno fa andarono in delirio alla proiezione di Totò che visse due volte di Ciprì&Maresco: elogio siciliano eretto in rigoroso bianco e nero alle discariche umane, ambientali, sessuali. E non dimentichiamolo, l’ultimo «Orso» italiano prima dei Taviani toccò al maestro dell’irriverenza, Marco Ferreri, nel 1991, per La casa del sorriso. A pensarci bene proprio a Berlino i tedeschi ci tirarono una fregatura. Nel 1986 invece di assegnare l’«Orso d’oro» a La messa è finita di Nanni Moretti, come meritava, gliene diedero uno, ma d’argento. Il premio più ambito andò al film tedesco Stammheim. Il caso Baader-Meinhof di Reinhard Hauff, ricostruzione piuttosto balorda e sinistrorsa (nonché brutta) di una pagina gravida di sangue del terrorismo tedesco. Alla cerimonia di consegna del premio era presente un’infastidita Gina Lollobrigida, giurato italiano. Qualche anno prima la Bersagliera avrebbe dato in escandescenza. In quell’occasione si fece bastare la mimica facciale.

L’universo cinematografico è un grande semplificatore di convincimenti sociali. Ai tedeschi del cinema italiano è piaciuto il neorealismo. La povertà, l’arretratezza, la drammaticità esistenziali. L’Italia lacera e malvestita del bianco e nero, carica di macerie materiali e umane. E poi le commedie ricche di stereotipi: maschi granitici e testosteronici, femmine pudiche e sottomesse, furbizia, cialtroneria, accomodamento, vivere alla giornata, spaghetti, canto e mandolini. Pasqualino Settebellezze, guappo uscito dal fervido universo di celluloide di Lina Wertmülller, avrebbe potuto rappresentare per i tedeschi la quintessenza italica. Ciò fu impossibile per la semplice ragione che Pasqualino aveva assaggiato la detenzione nazista. Sfinito dalla fame, promise all’ultra-giunonica carceriera tedesca le arti amatorie napoletane. Non se ne fece nulla, perché quella non era una donna, ma un mostro. Accanto a povertà e cialtroneria, dell’Italia cinematografica piace ai tedeschi la tendenza tipicamente criminale e mafiosa. Certo c’è stata La dolce vita di Fellini. Ma quella più che avere i tratti della società italiana, appariva un pezzo di America trasportata non si sa come sulle rive del Tevere. È vero, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore ha oltrepassato anche i più rigidi cuori teutonici. Resta però, e piace proprio per questo, l’immagine di un’Italia arretrata, provinciale e sentimentale, ricca di ruderi, bella per trascorrerci le vacanze perennemente soleggiate, mangiare piatti tipici e bere buon vino. Il tutto a prezzi convenienti.

Più liberi da preconcetti gli italiani hanno vivamente apprezzato, finché è stato possibile, il «giovane cinema tedesco» arrivato sul finire degli anni Settanta del secolo passato. Questo amore intellettuale toccò il punto più alto con Anni di piombo (1981) di Margarethe von Trotta, per come veniva affrontato il nodo l’universo del terrorismo (un tabù per i cineasti italiani), e con le code per assistere al volo degli angeli in Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (1987). Poi basta. Anche i più riottosi, uccisi dalla noia, si son visti costretti ad issare bandiera bianca.

E non per pregiudizio.

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