Controcultura

Cozza e la forma concreta di ogni bellezza ideale

Calabrese come il quasi coetaneo Mattia Preti, la sua estetica barocca diventa sublime recitazione

di Vittorio SgarbiLa Calabria, nei primi decenni del '600, si presenta con due grandi, e sempre piuttosto trascurati, artisti: Francesco Cozza e Mattia Preti. Quasi coetanei, l'uno nato nel 1605, l'altro nel 1613.Nessun dubbio che il secondo si raccomandi per inesauribili invenzioni che vanno oltre Caravaggio, anche se sembrano nascere dall'intendimento di metterlo in scena. Ciò che, nel grande maestro, è presa diretta sulla realtà, diventa sublime recitazione in Preti. Numerose opere, infatti, appaiono veri e propri spazi teatrali, con palcoscenici sui quali l'episodio, biblico e mitologico, viene interpretato. Niente di tutto questo in Francesco Cozza, ben più convenzionale nelle composizioni, e del tutto estraneo sia al realismo caravaggesco sia alla sua rappresentazione. Si dà così che i due principali pittori del Seicento calabrese, entrambi attivi a Roma, seguano strade e concezioni diverse: Preti la pittura della realtà, Cozza il bello ideale. Tutte le fonti antiche, dal contemporaneo Domenico Martire al Malvasia, a Pellegrino Antonio Orlandi, indicano Cozza come discepolo del Domenichino. Filippo Titi lo dice «compagno in vita fedele del Domenichino», e aggiunge che «dopo la sua morte ne terminò alcune opere rimaste imperfette e ne condusse molte di suo impegno». Lione Pascoli, fonte autorevole, nel 1736 ci dà del pittore una precisa biografia, ricordandone i natali a Stilo nel 1605, il trasferimento a Roma per seguire il Domenichino, e la morte l'11 gennaio 1682.Dopo un lungo oblio è il Novecento che restituisce dignità artistica al Cozza, grazie agli studi di Alfonso Frangipane, il quale rilanciò anche Mattia Preti, a partire dal terzo centenario della nascita, nel 1913. Segue Lucia Longhi Lopresti, con lo studio monografico del 1929, in un contributo rimasto fondamentale. Infine Luisa Mortari, con gli articoli che inseriscono il Cozza nel complesso ambiente culturale nel quale maturò la sua opera: non solo Domenichino, ma anche il Sassoferrato, Lanfranco, e i napoletani come Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione e Artemisia Gentileschi, il perugino Cerrini e il toscano Giacinto Gemignani.Con questi riferimenti Cozza appare anche più curioso di Mattia Preti che, oltre al Caravaggio, rivolse la sua attenzione al Ribera e al Guercino. Agli inizi il Cozza, invece, mostra curiosità per Guido Reni, supremo idealista, e per i pittori della sua scuola come il Cavedone, Simone Cantarini, Francesco Gessi, sulla strada diretta verso Domenichino e Lanfranco. Ed eccolo allora nella bella pala con San Giuseppe con il bambino e gli angeli per la chiesa di Sant'Andrea delle Fratte del 1632, la prima commissione ufficiale del calabrese a Roma, un'opera di straordinaria armonia ed eleganza, pur nel soggetto pervicacemente devozionale, in una misura che concorre con quella del Sassoferrato.Una nuova focalizzazione delle forme, dai panneggi quasi astratti, appare nella pala della chiesa di San Secondo a Gubbio, del 1637, all'inizio di quel viaggio verso «l'Umbria, la Marca, la Romagna e la Lombardia», ricordato dal Pascoli. Intorno al 1640 Cozza concepisce, con altre opere per Pietro Colonna, abate commendatario di Subiaco, la Natività della Vergine, ancora in Palazzo Colonna. Di quel momento miracoloso, nel 1645, in dialogo con i pittori napoletani, è la Fuga in Egitto per la cappella Passeri della chiesa di San Bernardino a Molfetta, con il ridondante panneggio che annuncia il meraviglioso capolavoro della Madonna del cucito, di un virtuosismo travolgente come un Sassoferrato cubista, purtroppo trafugata nella notte del 5 agosto 1970, il più doloroso furto d'arte dopo la Natività dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Ne resta fortunosamente una replica morbidissima, ma forse meno estrema, ora all'Ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma. Dello stesso tempo, con concessioni naturalistiche nei bellissimi rami, è la Sacra famiglia nella falegnameria di San Giuseppe, del museo di Capodimonte, ora in deposito al castello di Venafro. Siamo nella piena maturità dell'artista. Di quel momento è anche, in dialogo con Pacecco de Rosa, la Madonna con il bambino della Pinacoteca provinciale di Bari.È dopo le variegate esperienze sopra ricordate che Cozza si presenta con alcuni stupefacenti capolavori, a partire dalla Madonna del riscatto, datata 1650, per il Pontificio Collegio Nepomuceno di Roma. Il gusto per i panneggi morbidi e densi, e nello stesso tempo immateriali, lo affianca al Sassoferrato, ma in composizioni più barocche ed eloquenti, con la bella invenzione dell'angelo che porge lo scapolare con le offerte per il riscatto dei prigionieri, affacciandosi su una nuvola davanti al mare. A questa prodigiosa e prorompente invenzione seguono le due tele con i Santi Cosma e Damiano e la Madonna con i santi Filippo Neri e Francesco Saverio nell'Abbazia di Fiastra; la sontuosa Pala per la chiesa di Sant'Egidio a Montalcino, memore del Lanfranco più denso e plastico; e gli affreschi, documentati tra il 1558 e il 1661, nel Palazzo Doria Pamphilj di Valmontone. Ammalorati, ma di vertiginosa spazialità, rappresentano un'allegoria del Fuoco, con la fucina di Vulcano in un variegato paesaggio integrato da architetture, forni e utensili.A Valmontone Cozza lavora a fianco di Pierfrancesco Mola nella stanza dell'Aria, di Jacques Courtois in quella dell'Acqua, di Agostino Tassi in quella della Terra e di Gaspard Dughet nel salone del Principe. Si tratta di un'impresa epica e solenne, cui seguono i meravigliosi affreschi per il Palazzo Pamphilj in piazza Navona a Roma, nel Collegio Innocenziano, dove Cozza dipinge, con formidabile e compiaciuto magistero, La Divina sapienza e le tre virtù teologali, con le quattro branche del sapere e i quattro elementi, tra il 1667 e il 1673.L'anno successivo inventa La predica del Battista, in piccolo formato ma eloquente retorica, ora nella Fondazione Cavallini Sgarbi, cui segue la versione ingrandita per la chiesa di Santa Marta al Collegio romano, ora nella Galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini. Nel 1675-1676 dipinge nella Sala verde di Palazzo Altieri le Stagioni di grande ed eterea eleganza, mostrandosi un vero e proprio pittore pompier ante litteram. Di enfatica, teatrale retorica sono infatti, nei tardi anni, la storia di Ester e Assuero nella collezione Dwight C.

Miller a Palo Alto in California, e l'iperrealista Trionfo di David, già in collezione Lanfranchi, primo, indimenticabile dipinto che io vidi del pittore, in quella luce aurorale, cristallina che eternizza le forme.

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