Controstorie

Crolla il mito del ranger fra bullismo e molestie

Rivoluzione nei parchi nazionali americani dopo lo scandalo che ha colpito il personale

Lucia Galli

È una delle meraviglie della terra, eppure lavorarci può non essere piacevole. I suoi dipendenti - dalle guide ai rangers, dagli studiosi ai volontari - lo sanno e te lo ricordano come in un claim ormai oliato: We are payed in sunsets, «Siamo pagati in tramonti». Come dar loro torto? Ogni anno oltre 6 milioni di visitatori si accalcano lungo i 446 km del Grand Canyon sui bordi del south rim per una serie di selfie mozzafiato lungo il Kaibab trail. A 350 km di distanza o 16 per chi sapesse volare -, sul bordo nord, invece, quello più alto e selvaggio, si fa la coda per un'alba o un tramonto lungo il Bright angel point o ci si siede per ore sui larghi divani in pelle scura del Grand Canyon lodge con vetrate a picco sull'infinito. I più arditi non si fanno mancare l'escursione della vita: 1600 metri di dislivello in discesa (da ripercorre poi in su) fino al cuore del canyon e alle rive del fiume Colorado, dormendo al leggendario Phantom ranch, l'unico «indirizzo» al coperto nelle viscere di questa faglia di Arizona che si vede anche dallo spazio. Si prenota (e si paga) con anni d'anticipo o ci si iscrive alla lotteria che sorteggia, ogni mese, alcuni posti letto nel piccolo dormitorio o nei bungalow. Eppure un conto è il canyon dei turisti, un conto è quello dei dipendenti dove quella remunerazione in tramonti è sì «in natura», ma non nel senso letterale del termine. Negli ultimi anni, infatti, hanno cominciato a emergere storie di molestie sessuali, violenza, minacce, bullismo e comportamenti omofobi che stridono con la cornice magica dei luoghi e con il nostro immaginario oleografico dei grandi parchi americani, tutta wilderness, Yoghi, Bubu e ranger Smith. No, tutt'altro. Il Grand Canyon, così bello da sembrare extraterrestre, condivide paturnie, dinamiche e comportamenti alquanto terreni e comuni a molti uffici e luoghi di lavoro assai meno affascinanti. Tutto deve essere cominciato nella notte dei tempi, ma dal 2014 a oggi le cose stanno cambiando, grazie a una serie di iniziative e indagini federali che hanno portato anche all'allontanamento dei vertici del parco, sostituiti nel settembre 2016 da una nuova task force guidata da Chris Lehnertz, 56 anni, una carriera all'Agenzia di protezione ambientale e in altri parchi fra cui Yellowstone, un coming out precoce sul suo orientamento sessuale e un pugno di ferro contro questa «macho vibe», deriva un poco maschilista che negli anni ha reso difficile a molti e molte la vita al parco. Suck it up, buttercup!,«Ingoia il rospo e fattene una ragione»: questo era il leitmotiv di chi lavorava qui. O dentro o fuori, nel nome di un codice di (poco) onore, non meglio giustificato da un ambiente tanto superbo, quanto desolante per chi non sapesse a chi rivolgersi in caso di soprusi. Lehnertz è arrivata poco dopo un'indagine che ha scoperchiato ciò che molti sapevano e molti altri tenevano nascosto. È il 2016 quando un report promosso dall'Interior department office dell'Inspector General fa esplodere un grande #metoo (movimento contro le molestie) ante litteram e applicato, oltre che alle crode del canyon, anche ad altri parchi made in Usa, dagli Appalachi allo Zion.

«I luoghi aperti, la solitudine, la posizione di potere spiegano dalla Coalizione per i Minority employees - sono terreno fertile per gli abusi». Fino ad allora si calcola che il 19% dei dipendenti dei parchi americani avesse subito qualche molestia. Solo l'1% ha denunciato violenza, ma nel 10% dei casi si parla di molestie sessuali. Quando Lehnertz arriva al Grand Canyon sono 35 le donne ad aver trovato la forza di parlare: in 13 casi si tratta di ambiente ostile, machismo, ma in 22 situazioni la condotta ai limiti della violenza è più che evidente. C'è Amy costretta a bere da una cannuccia con forme oscene dal suo superiore giù nel silenzio di Phantom ranch in occasione di alcune battute di manutenzione della zona. C'è Sarah che sopporta da anni palpatine e ammiccamenti e una sua collega che ha sopportato per anni messaggi e richieste oscene. Altri dipendenti sono stati bullizzati e costretti a lavori anche pericolosi, come pulire i bagni pubblici della zona senza proteggersi contro l'epatite, tanto per sfidare chissà quale superiorità fisica. E c'è Robin che tanto aveva sognato questo lavoro come ranger e interprete, ma che poi non ce l'ha fatta e ha mollato; lei, che pure aveva sporto denuncia, ma si era vista scivolare la pratica sempre sotto altre scartoffie di reclamo. Al parco ci sono 500 dipendenti: quando è arrivata, Lehnart li ha invitati tutti, a turno in gruppo, per una passeggiata che, fra panorami e precipizi, provasse a togliere una spessa coltre di omertà. «Per anni qui spiega lei nel suo report si è anteposto il senso del comando e del potere al buon senso: mi sono trovata come di fronte a bambini senza alcun supervisore», dice senza mezzi termini. I numeri del suo report fanno venire i brividi: il 39% dei dipendenti ritiene di aver subito molestie di vario genere, ma il 75% di loro non l'ha denunciato convinta che nulla sarebbe cambiato. Ora Chris ha messo in campo un team di una decina di persone, che si occupa anche di seguire un iter di mediazione legale. Il risultato? Otto fra le teste più calde sono state già «accompagnate» alla porta: «Se ne vanno pure con i benefici della pensione, ma almeno se ne vanno: non c'era altra via rapida secondo gli avvocati», spiega Chris. «La nostra priorità - aggiunge lei - è che il luogo di lavoro sia inclusivo e rispettoso di tutti». Una bella differenza con quel granitico Suck it up, buttercup!.

Il Grand Canyon, le sue albe e i suoi tramonti, ringraziano.

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