Cronache

Addio Giorgio, grande genio fuori dal coro

Albertazzi è morto a 92 anni Una vita controcorrente sul palco e in privato

Addio Giorgio, grande genio fuori dal coro

Lucido e leonino fino all'ultimo, fino all'ultimo Giorgio Albertazzi non ha mai sentito la necessità - così umana - di essere simpatico al prossimo. Sapeva di essere bello, colto, intelligente, fascinoso, fico e per di più fiorentino, caratteristica che ai fiorentini piace particolarmente. Voleva che gli venisse riconosciuto di essere bravo nel suo mestiere, questo sì, ma sapeva anche di essere bravissimo. Sapeva, insomma, di essere Albertazzi (di sé parlava in terza persona, «Albertazzi ha detto», «Albertazzi ha fatto») e tanto gli bastava, gli altri si arrangiassero, e pensassero quel che volevano di lui. Beninteso, essendo anche un uomo dabbene, un signore, non mancava di umana comprensione, di empatia, senza però concedere niente ai conformismi, alle giustificazioni, ai compromessi di comodo. L'esempio più noto è la sua partecipazione alla Repubblica sociale italiana. Aveva vent'anni, e non rinnegò mai il se stesso giovane, ma neanche ne menava vanto, come fosse qualcosa che era superfluo spiegare.

Provai a parlargliene, una volta, in quella sua casa romana strapiena di buoni libri, di premi ricevuti, di locandine di spettacoli e di sue fotografie in cui tutto gridava Albertazzi! Albertazzi! Non rispose neppure, bastò un gesto con la mano - non a caso era un grande attore - per dire che non c'era niente da dire. Eppure aveva sparato, aveva ucciso. Ma non c'era niente da dire perché così era stato, della storia si sarebbero occupati gli storici, di sé si occupava lui.

Io so, tutto il suo essere lo dimostrava, che non era un fascista, né tantomeno un sanguinario. E sono convinto che se, nella maturità, si fosse trovato ad affrontare la stessa situazione, sarebbe salito sui monti a difendere la libertà e non il senso dell'onore e della patria che gli avevano inculcato da giovane. Però non si sentiva tenuto a dirlo, a dare spiegazioni, la sua vita era sua, agli altri, a noi, appartenevano soltanto le molte vite che rappresentava sui palcoscenici, e che generosamente elargiva.

Di questo modo di essere ho un altro ricordo. Si era in uno studio televisivo, dove sedeva svogliato e distratto, senza curarsi neanche di sapere bene di cosa si parlasse e chi ci fosse intorno a lui. L'avevano invitato e c'era andato. A un certo punto il conduttore chiamò un ragazzo a recitare La pioggia nel pineto. Albertazzi si fece attento di colpo, ascoltò pochi versi della recita, né brutta né bella, poi senza profferire verbo si tolse il microfono, si alzò e, molto semplicemente, se ne andò dallo studio. Gli avevano fatto l'affronto di far recitare a un dilettante, lui presente, d'Annunzio, una sua passione; per di più La pioggia nel pineto, un cavallo di battaglia. Lo inseguii, e gli spiegai che quel ragazzo aveva un disturbo mentale e faceva parte di un progetto di recupero degli handicap attraverso il teatro. «Oh, poveretto», disse, sinceramente dispiaciuto: «Ma non si fa recitare a nessuno d'Annunzio, se ci sono io». E se ne andò.

Ora se ne è andato nello stesso modo, lasciandoci ai fatti nostri.

Tanto, in scena non c'è più lui.

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