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Adesso le toghe rosse mollano il Pd per Grillo

La corrente di Davigo sostiene il candidato dei 5 Stelle. I dem: "Avessero vinto loro c'era da scappare all'estero"

Adesso le toghe rosse mollano il Pd per Grillo

I commenti più surreali sull'elezione di Davide Ermini alla vicepresidenza del Csm sono stati quelli di Giggino Di Maio e del Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che lamentano «l'assenza di indipendenza», visto che, come osserva il vicepremier grillino, si tratta di «un renzianissimo deputato fiorentino del Pd». Sul piano teorico sarebbe un appunto giusto. Solo che se si fa l'analisi del sangue di chi ha votato per il candidato dei 5stelle, Alberto Maria Benedetti, si scopre che è stato sostenuto da chi tra i consiglieri si rifà, in un modo o nell'altro, al perimetro dell'attuale maggioranza di governo, compresi gli eletti della Lega. Di più, la motivazione (quasi una requisitoria) con cui Piercamillo Davigo, leader di una delle correnti in cui si dividono i togati, ha appoggiato nelle riunioni preparatorie un altro dei nomi portati in Csm dai pentastellati, quello di Filippo Donati, è stata anch'essa squisitamente politica: «Non si può votare perché ha appoggiato le riforme di Renzi nel referendum».

Insomma, siamo alle solite, in quel tempio dell'imparzialità che dovrebbe essere il Consiglio superiore della Magistratura, l'organo di autogoverno dei giudici, la logica è sempre la stessa: politica contro politica. Ed è squisitamente politica anche la principale novità: Magistratura democratica, la corrente dei giudici di sinistra, quelli che una certa letteratura ha soprannominato negli ultimi trent'anni come le cosiddette «toghe rosse», confluita da qualche anno in «Area», ha divorziato dal Pd. Per essere chiari, non ha votato per Ermini. Motivo? Anche questo tutto politico: quel mondo ha maturato un'avversione verso Matteo Renzi, molto simile a quella che da sempre nutre verso Silvio Berlusconi. «Mi odiano a tal punto...»: è stato il commento ieri dell'ex segretario del Pd. E, l'inimicizia a questo punto è ricambiata, almeno da una parte del vecchio partito di riferimento. «Hanno fatto di tutto sbotta il piddino Ettore Rosato, vicepresidente della Camera per metterla in quel posto a noi. E meno male che ha vinto Ermini. Immaginatevi se avesse vinto il candidato del fronte giustizialista che mette insieme grillini, leghisti, Davigo e le toghe rosse di un tempo... Ci sarebbe stato da scappare all'estero!».

Squarciando il velo dell'ipocrisia, quindi, anche nell'anno del governo del cambiamento, per comprendere ciò che avviene nel mondo delle toghe, bisogna usare il metro della politica. Ad esempio, per lavorare ai fianchi la candidatura del prof. Alessio Lanzi, sponsorizzato da Forza Italia, l'argomento principale usato in queste settimane è stato: «È il candidato di Berlusconi». Ed ancora: come si fa a dare un senso alla decisione dei due consiglieri portati in Csm dalla Lega, di votare con Davigo e gli eredi delle toghe rosse, quando neppure venti giorni fa Matteo Salvini ha apostrofato come «sentenza politica» il sequestro dei 49 milioni di euro della Lega e, appena ieri, il fondatore del Carroccio, Umberto Bossi, è stato condannato ad un anno e 4 mesi per aver offeso l'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano? Sarebbe una decisione incomprensibile senza l'aiuto di uno schema squisitamente politico: l'esigenza di stare con i grillini e non con il Pd. Anche se poi un leghista tutto d'un pezzo, come Stefano Candiani, non nasconde un certo imbarazzo nel ritrovarsi nel fronte giustizialista: «Ma che roba è questa?».

Già, tutto sbagliato, tutto da rifare: sui temi della giustizia, più che guardare agli schieramenti politici, bisognerebbe rifarsi alla filosofia del diritto, decidere se stare con Cesare Beccaria o con Maximilien de Robespierre. Anche perché se la «ratio» è simile a quella del Parlamento, allora è meglio non fosse altro come garanzia che la maggioranza del Csm non ricalchi quella di governo. La vera «indipendenza», infatti, si dimostra sui fatti e non sul colore. All'alba del governo del cambiamento il ministro della Giustizia, Bonafede, promise una norma che impedisse a un magistrato che va in politica di tornare a fare il giudice.

Una promessa solenne, seguita in questi mesi da un silenzio assordante.

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