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Aiuto mi si è ristretta la musica

In vent’anni l’industria delle canzoni ha perso il 70% dei ricavi. Ora però vede la luce grazie a una parola magica: streaming

Aiuto mi si è ristretta la musica

E ra il 1999, poco meno di vent’anni fa. «Il mio nome è mai più», parto dell’inedito terzetto Ligabue-Jovanotti-Pelù, dominava le classifiche italiane, seguito a ruota da Cher («Believe») e Lou Bega («Mambo number 5»). Artisti e produttori si godevano una specie di età dell’oro, con l’industria discografica che segnava fatturati record: in Italia gli incassi sfiorarono in dodici mesi l’equivalente di 400 milioni di euro, a livello mondiale si superarono i 23 miliardi di dollari. Vette mai toccate prima di allora. Ma il paradiso era destinato a durare poco: l’arrivo del digitale e il lancio di Napster, la più nota piattaforma per lo scambio di file musicali aggirando le norme sul diritto d’autore, travolsero in un attimo il settore. Poi, a completare l’opera, è arrivato YouTube. E da allora per l’industria è stata una specie di Caporetto. I consumatori di tutto il mondo si sono regolati in base un unico criterio: perché mai spendere soldi per un brano musicale se su internet si può ascoltare, gratis, di tutto? CAMBIO DI PASSO Il risultato è stato che in termini di incassi la musica (insieme, pare, all’informazione e all’industria pornografica) è stata il comparto che ha pagato il prezzo più alto all’onnipotenza della Rete. Nel 2016 il fatturato delle case discografiche italiane ha toccato i 149 milioni di euro (i dati sono della Fimi, l’associazione che riunisce i grandi gruppi). Se si tiene conto dell’inflazione il calo rispetto al mitico 1999 supera abbondantemente il 70%. A livello globale il tracollo è stato appena inferiore: nel 2016 l’Ifpi, l’associazione internazionale dei produttori, ha dichiarato ricavi per 15,7 miliardi. Eppure, dicono gli esperti, proprio i dati del 2016, così malinconici se si confrontano con quelli di un tempo, potrebbero segnare una svolta. E in senso finalmente positivo. Intanto rispetto all’anno precedente c’è dappertutto un segno più (0,4% in Italia, 5,9% nel mondo), ma soprattutto, a dominare i commenti è una parola magica: streaming, secondo molti il ricostituente in grado, se non di riportare il settore musicale agli antichi splendori, di ridare un po’ di fiato ad artisti e produttori. Lo streaming consente di ascoltare musica via internet senza scaricarla sul proprio computer ed è la forma di ascolto in ascesa. A livello mondiale l’aumento è stato del 60% negli ultimi 12 mesi e il boom ha portato la quota di vendite digitali al 50% del totale, mentre la vendita di cd rappresenta oggi solo il 34%, è in calo continuo (-7,6% l’anno scorso), e non è minimamente compensata dalla ripresa del vinile, un fenomeno di nicchia e di fatto irrilevante sui grandi numeri. I numeri del mercato italiano sono lievemente diversi (i cd fisici pesano ancora il 36% e le vendite digitali il 46%), ma le linee di tendenza sono identiche a quelle internazionali. Il colosso dello streaming è la svedese Spotify: fondata nel 2008, per gli ultimi mesi dell’anno sta preparando la quotazione a Wall Street sulla base di un valore che dovrebbe attestarsi intorno ai 13 miliardi di dollari. Spotify ha circa cento milioni di clienti e la metà ha sottoscritto un abbonamento premium: in cambio di un corrispettivo mensile (di solito intorno a 9-10 euro) gli abbonati possono ascoltare sul proprio telefonino, tablet o computer tutta la musica che vogliono. E il nodo fondamentale è che Spotify i diritti di questa musica li acquista regolarmente dalle case produttrici. E lo stesso fanno tutte le società che offrono servizi streaming: Applemusic, Tidal, Amazon Deezer e le altre. È questo che piace da morire ai discografici.

L’INGOMBRANTE COLOSSO Negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con un colosso come YouTube (controllato da un supercolosso come Google) che ha fatto i soldi versando poco o nulla agli autori di video musicali scaricati dagli internauti. «In termini tecnici si chiama value gap», spiega Enzo Mazza, presidente della Fimi. «È la differenza tra quello che YouTube incassa, in pubblicità e altro, diffondendo la nostra musica e quello che ci versa in cambio». YouTube si nasconde dietro il fatto di essere soggetta alla legislazione americana, che ha stabilito di applicare alla società il principio del cosiddetto safe harbour (letteralmente vuol dire «porto sicuro»). In pratica YouTube non è responsabile di quanto caricato sul sito. L’unico suo obbligo è quello di cancellare i video che violano qualche normativa (per esempio quella sul diritto di autore). Di fronte alla regola del safe harbour i produttori musicali si trovano a malpartito: chiunque può caricare in rete un brano su cui vantano dei diritti. Spetta a loro spendere soldi per monitorare la situazione e far cancellare quanto pubblicato impropriamente. Senza ricavarne un vantaggio e privandosi, tra l’altro, di una formidabile cassa di risonanza. Quindi sono costretti a mettersi d’accordo con YouTube, negoziando da una posizione di debolezza. Non è un caso che le royalties ottenute sono una briciola di quelle che ricavano dai servizi in streaming. «Per ogni utente di YouTube che ascolta musica incassiamo in media un dollaro all’anno, contro i venti che ci vengono dagli accordi con Spotify e gli altri operatori», spiega Mazza.

PAROLA A BRUXELLES A fare evolvere la situazione in senso favorevole ai produttori non è solo la sempre maggior diffusione dello streaming. Una novità importante potrebbe arrivare anche da Bruxelles. L’anno scorso più di mille artisti, da Ed Sheeran agli Abba, dai Coldplay a Elton John, si appellarono all’Unione europea perché mettesse un freno allo strapotere di YouTube. La Commissione guidata da Jean-Claude Juncker ha messo a punto una nuova normativa in cui, almeno sul territorio europeo, i servizi di condivisione online vengono equiparati sul piano giuridico a quelli di streaming, con tutte le conseguenze economiche del caso. La proposta potrebbe essere discussa dal Parlamento entro l’autunno. Ma la festa per i discografici non è ancora sicura vista l’intensa attività di lobbying degli americani che cercano di evitare a ogni costo il provvedimento. L’arrivo di più soldi ai produttori sarebbe una manna anche per gli artisti. L’economia del loro mestiere è cambiata radicalmente negli anni del digitale. E certamente non in meglio. «Un tempo un singolo di successo faceva anche un milione di copie, oggi se ne fai 200mila sei già un miracolato», spiega Toni Verona, patron di Alabianca, uno dei più noti e apprezzati discografici italiani. «Non parliamo di grandi stelle come Ramazzotti o di Ligabue, ma per un cantante normale ormai l’80% del reddito è rappresentato dai concerti. E una volta le tournée si facevano per promuovere le vendite del disco o del cd.

Oggi per portare a casa la pagnotta».

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